Come va? Come state? Come state affrontando questa fine di ottobre?E questo 31 del mese halloweenesco?
Oggi si torna con una nuova recensione, parliamo di un testo di cui (come al solito) desidero parlarvi da mesi, ovvero “Il Cielo è dei Violenti” di Flannery O’Connor.
Sono molto intrigata dalla O’Connor e ammetto di provare nei suoi confronti un senso generale di curiosità e ammirazione, questa è stata la mia prima lettura dell’autrice e devo dire che mi sono ritrovata davanti un libro molto diverso dalla aspettative.
Lo zio di Francis Marion Tarwater era morto da appena mezza giornata quando il ragazzo si ubriacò troppo per finire di sca- vargli la fossa, e così toccò a un negro di nome Buford Munson, che era venuto a farsi riempire una brocca, completare l’opera, trascinando il cadavere dal tavolo della colazione dov’era ancora seduto per dargli una degna e cristiana sepoltura, piantando le insegne del Salvatore in testa alla tomba e ricoprendola di una quantità di terra sufficiente a evitare che i cani lo disseppellissero. Buford era arrivato pressappoco a mezzogiorno e quando se ne andò, al tramonto, il ragazzo, Tarwater, non era ancora tornato dalla distilleria.
Trama
Francis Marion Tarwater è stato costretto a crescere fin dall’età di quattro anni con il prozio Mason, un fanatico religioso che vive come un eremita nei boschi, è convinto di essere un profeta e ha sottratto il bambino al nipote Ryber, un maestro elementare che vive seguendo i dettami della ragione e della scienza. Quando Mason muore, Francis, ormai quattordicenne, torna a casa di Ryber, ma con una missione da compiere. Deve battezzare a ogni costo Bishop, il figlio del maestro, che a detta del prozio è nato «deficiente» per grazia divina. Comincia così una guerra senza esclusione di colpi, nella quale Ryber cerca in ogni modo di riportare Francis alla ragione e alla «normalità», mentre nella mente del ragazzo continuano a risuonare gli insegnamenti di Mason, e il richiamo di una fede tanto brutale quanto potente e liberatoria. Riproposto da minimum fax in una nuova traduzione a sessant’anni dalla sua pubblicazione, nel 1960, Il cielo è dei violenti è considerato una pietra miliare della letteratura americana: un esempio della sensibilità gotica e della potenza satirica che convergono nell’opera di Flannery O’Connor.
Recensione
Flannery O’Connor fu la principale esponente del genere gotico sudista, nelle sue opere si avverte l’impatto della sua forte fede cattolica.
Tra le sue opere più famose ci sono “Il Cielo è dei Violenti” appunto e “La Saggezza nel Sangue”, ma anche i suoi racconti e diari.
Trama, ritmo e atmosfera
È difficile parlare di un testo come “Il Cielo è dei Violenti”. Il primo punto che vorrei sottolineare è quello riguardante il fatto che secondo me (e per me, per la mia personale esperienza di lettura) non è stato per la prima parte un testo semplice da leggere. Forse mi ero fatta idee sbagliate sullo stile dell’autrice o forse pensavo mi sarei trovata davanti ad un testo con un piglio diverso, sta di fatto che la prima parte è stata un poco complessa. Non ho trovato lo stile dell’autrice particolarmente scorrevole e non lo dico in modo negativo. Lo stile della O’Connor non scorre a mio vedere in modo fluido ma ci si abitua al suo stile appunto dopo la prima parte, e risulta certamente più digeribile. Non è uno stile negativo o impossibile, solo più arzigogolato rispetto alle aspettative e sicuramente crudo e violento.
Alla fine posso dire di aver apprezzato la voce della O’Connor nonostante la difficoltà iniziale, ha un stile certamente riconoscibile.
Devo dire inoltre che io ho letto il libro in italiano (edizione Minimum Fax) non saprei dire riguardo allo stile originale della O’Connor togliendo la traduzione.
Il ritmo del testo è nella norma, non è un libro con picchi veloci o lenti, segue un buon ritmo, una buona narrazione. Seguiamo il protagonista che si interfaccia a varie situazioni in un crescendo di eventi.
Parlando infine delle atmosfere, abbiamo di certo vari contesti, da quello urbano in cui si ritrova catapultato il protagonista a quello più rurale in cui è cresciuto. Le atmosfere generali sono (come per il ritmo) un crescendo, nel senso che seguiamo Francis nella sua missione di battezzare Bishop, il figlio di Ryber per seguire quelli che sono stati gli insegnamenti di Mason, il prozio morto e fanatico religioso. Francis continua quindi con le sue convinzioni e missioni e lo farà fino a portare il tutto al crescendo finale appunto.
Il testo ha di certo atmosfere che non definirei leggere, si avverte sempre un sottofondo amaro, seguiamo questo ragazzino quattordicenne diviso fra la fede e la ragione, fra la razionalità e quella che è stata la sua vita fino a quel momento con il prozio morto. Si avverte il senso di confusione e perdita di Francis che sembra non saper dove andare nel mondo che lo circonda.
Temi
Il libro affronta varie tematiche, il conflitto fra la religione e la ragione, la violenza, la dannazione, ovviamente la crescita del protagonista in questo momento delicato e la perdita.
Perdita non tanto del prozio morto Mason, ma più degli insegnamenti conficcati a forza in Francis per anni, la perdita nel vedere questo ragazzino seguire dogmi che lo portano a determinati atti o scelte e da cui non riesce a distaccarsi.
Dobbiamo anche dire che la violenza è uno dei temi appunto del romanzo, simbolo di rinascita e salvezza ispirato a uno dei versetti del Vangelo.
Penso anche che questo sia un testo complesso da analizzare o interpretare, ognuno tende a dare la propria lettura anche in base alle proprie esperienze e idee forse sulla religione essendo questo un testo fortemente intriso di religione, non dimenticando appunto che la O’Connor era molto credente.
A parte il discorso religione comunque è un testo da cui si possono estrapolare mille e più interpretazioni non solo sulla religione ovviamente, si è portati a riflettere prima di tutto sul come si vive quando si seguono dogmi e dottrine così fortemente inculcate per anni da altri soprattutto in giovane età.
Il fatto che questo ragazzino, Francis, non riesca in nessuno modo a togliersi dalla testa la voce del prozio morto e i suoi insegnamenti nonostante la fatica compiuta dall’altro prozio Ryber, un insegnante elementare nipote del vecchio Mason è ciò che a mio vedere evoca questo senso di smarrimento e solitudine in Francis.
«Corrompeva ogni cosa che toccava», disse il maestro. «Ha vissuto una vita lunga e inutile ed è stato profondamente ingiusto con te. È un bene che sia morto, finalmente. Avresti potuto avere tutto e non hai avuto niente. Ora si cambia vita. Ora starai con qualcuno che saprà aiutarti e capirti». Aveva gli occhi lucenti di felicità. «Non è troppo tardi per fare di te un uomo!» Il viso del ragazzo si incupì. La sua espressione diventò impenetrabile fino a trasformarsi in una fortezza eretta a protezione dei suoi pensieri; ma il maestro non notò alcun cambiamento. Guardò attraverso il ragazzo insignificante che aveva di fronte e vide ben chiaro nella sua mente, fin nei dettagli, quello che sarebbe diventato.
Flannery O’Connor per prima non amava molto coloro che criticavano o davano interpretazioni eccessive al testo, ad esempio scrisse questo ad un professore di inglese: “Un eccesso di interpretazione è senz’altro peggio che un difetto, e laddove manca la sensibilità per il racconto, non sarà certo la teoria a rimpiazzarla.”
A coloro che tendevano ad analizzare troppo o sostare eccessivamente sui suoi testi sentendo di non averli capiti diceva che lei sarebbe stata più contenta nel vederli leggere divertendosi e basta, senza farne ogni volta un problema, come scrisse ad una studentessa.
Francis
Francis è un protagonista dolceamaro, è normale dispiacersi per lui, un ragazzino cresciuto in questo modo rigido che non conosce una vita libera da determinati ragionamenti o ossessioni. Conosce Bishop, figlio down del prozio Ryber che sviluppa un attaccamento nei suoi confronti ma che lui in realtà vuole battezzare sempre secondo le credenze di Mason e lo farà alla fine, ma il tutto accadrà in modo tragico e amaro. Francis tornerà poi nel luogo che conosce e a cui ha dato fuoco.
“Il Cielo è dei Violenti” oltre alle battaglie che ritrae, bene e male, religione e scienza, violenza e non violenza è anche un testo sulla profonda solitudine dei personaggi presenti, soprattutto di Francis e Ryber, uomo che prova in tutti i modi a riportare Francis alla realtà ma che fallisce.
È un romanzo cupo, che mostra la disfatta di un uomo e di un ragazzino perso.
Conclusioni
Questo libro ha avuto un impatto su di me con il tempo, nei primi giorni dopo la lettura ho riflettuto parecchio anche perché il testo come dicevamo lascia spazio a molte riflessioni.
Non lo definirei un testo semplice ma forse come ha scritto anche l’autrice la via migliore per approcciarsi è leggerlo e basta senza riempirsi di riflessioni, analisi eccessive o altro, solo gustarsi la lettura.
Voto:
E voi? Avete letto “Il Cielo è dei Violenti”? Sì? No? Fatemi sapere!
Rieccomi! Come state? Come sono andate le ferie? Vi siete rilassati? Spero di sì!
Dunque, andiamo avanti con la catasta di recensioni che dobbiamo recuperare di libri di cui ancora vi devo parlare, ebbene sì, ho anche qualche in mente qualche idea per nuove e succose rubriche ma prima di tuffarci in queste vorrei almeno affrontare qualche recensione che attende da ormai troppo tempo.
Oggi parliamo de “Il Villaggio Perduto” di Camilla Sten, lettura del 2024 per me, testo di cui forse vi ho già accennato qualcosa qua e là.
“Era un pomeriggio di agosto talmente soffocante che nepриre l’aria che entrava dai finestrini abbassati riusciva a mitigare la calura dentro l’abitacolo. Albin si era tolto il berretto e lasciava penzolare il braccio all’esterno, attento a non sfiorare con la mano la carrozzeria bollente.«Quanto manca?», tornò a chiedere a Gustaf. Gustaf gli rispose con un grugnito. Albin lo interpretò come un invito a consultare la mappa, se ci teneva tanto a saperlo. L’aveva già fatto. Non era mai stato nella cittadina verso cui erano diretti, troppo piccola per ospitare un ospedale e perfino una stazione di polizia. Era poco più grande di un villaggio. Silvertjärn.“
Trama
Alice Lindstedt è una giovane regista di documentari costretta a barcamenarsi con la precarietà. C’è una storia, nascosta da qualche parte nelle crepe del passato, che la ossessiona da sempre. Nell’estate del 1959 il piccolo villaggio minerario di Silvertjärn è stato teatro di un evento inspiegabile: i suoi novecento abitanti sono svaniti nel nulla, lasciandosi dietro soltanto una città fantasma, il cadavere di una donna lapidata nella piazza del paese e una neonata di pochi giorni abbandonata sui banchi della scuola. Nonostante le indagini e le perlustrazioni a tappeto della polizia, non si è mai trovata alcuna traccia dei residenti, né alcun indizio sul loro destino. La nonna di Alice viveva nel villaggio, e tutta la sua famiglia è scomparsa insieme a loro. Le domande senza risposta sono troppe, e Alice decide di realizzare un documentario per ricostruire ciò che è realmente accaduto. Insieme a una troupe di amici si reca sul posto per i primi sopralluoghi: ben presto capiranno che non sarà così facile tornare indietro.
Recensione
Camilla Stan è nata in Svezia nel 1992 è la figlia della famosa scrittrice di gialli Viveca Sten. Ha scritto libri per ragazzi esordendo nella narrativa per adulti proprio con “Il Villaggio Perduto” nel 2024. Nel 2025 è uscito anche “L’erede” altro testo di genere thriller.
Stile, Ritmo e Atmosfera
Dunque, lo stile di Camilla Stan è piuttosto godibile, direi assolutamente in linea con il genere a cui appartiene il libro. Riesce a creare questo clima generale di ansia e apprensione che funziona molto bene in un testo thriller che ti deve spingere avanti pagina dopo pagina. Non è ne troppo semplice nella scelta dei termini ne troppo aulico e complesso, c’è un buon mix, scorre bene e come dicevo, funziona.
Anche il ritmo è buono, non sempre lineare nel senso che è uno di quei testi in cui c’è un roller coaster di scene e rivelazioni/movimenti soprattutto nella parte finale in cui si salta un poco in giro su varie rivelazioni e dinamiche/scene. Ho apprezzato questo fattore che contribuisce a mio vedere a rendere il testo sempre attivo e entusiasmante per il lettore. Ovviamente ci sono momenti anche lenti, o meglio, in cui certe rivelazioni e collegamenti arrivano lentamente. È un sali-scendi a livello ritmico.
Le atmosfere secondo me sono il punto forte, l’aspetto più coinvolgente del testo. Anche perché siamo in un villaggio abbandonato, molte scene del libro si svolgono in una chiesa che sembra quasi maledetta e oscura, giriamo nelle abitazioni e nei luoghi lasciati a loro stessi e aleggia sempre questa nebbia di oscurità mista a mistero perché non sappiamo (come i personaggi) cosa è davvero accaduto in questo luogo.
Sappiamo solo che anni prima è stato esplorato questo villaggio in cui è stata trovata solo una donna lapidata nella piazza del paese e una neonata abbandonata, e basta. Nessuna traccia delle altre persone scomparse, nessun segno.
Quindi sono molto forti le vibes misteriose e oscure come dicevamo, anche perché ovviamente andando avanti con la lettura inizieranno ad emergere rivelazioni e punti ambigui della vita in questo villaggio poco prima della sparizione dei suoi abitanti.
Finale e Rivelazione
Ovviamente non parleremo nel dettaglio del finale, vorrei evitare spoiler anche se a volte non riesco a controllarmi e qualcosa mi sfugge. Ma perché dedico una sezione di questa recensione al finale e alla rivelazione? Perché è forse uno dei pochi punti che non mi hanno convinta del tutto, so che è stato criticato il finale e la risoluzione del mistero. Io ho apprezzato comunque la rivelazione, certo forse ci si poteva arrivare e mi rendo conto che non sia un colpo di scena di quelli che ti fanno ripensare alla tua intera esistenza, ma è coerente con la trama e con gli indizi che vengono presentati e per certi versi può stare in piedi, magari scricchiolando un pochino, ma può funzionare.
Ci sono però alcune scene nel finale che hanno fatto storcere il naso ad alcuni lettori di questo testo e anche a me, nonostante mi sia indubbiamente piaciuto e nonostante io senta di poter passare sopra a queste piccole “incongruenze/dinamiche un poco forzate”, sono comunque presenti e hanno a che fare con il fatto che alla fine quando il tutto viene rivelato scopriamo il volto dietro a certi atti e questa persona compie azioni non del tutto coerenti con alcune sue caratteristiche. Non posso dire altro senza fare spoiler, ma alcune scene pensando alle dinamiche sono forse un poco forzate
I personaggi e l’atmosfera
A mio avviso l’utilizzo di un luogo simile con una storia simile come scenario di un libro funziona a meraviglia, non si sbaglia con un luogo abbandonato, avrà sempre quel fascino decadente e tetro che piace, ed è come dicevo uno dei punti forti perché oltre al luogo capiamo presto che in questo villaggio sembra muoversi una (o più) presenza oscura, accadono fatti che hanno del paranormale e infatti fino ad un certo punto del volume si può anche vagliare questa opzione. Quindi sappiamo che i personaggi sono soli, isolati, in un luogo strano e cupo in cui si muove un qualcosa di sconosciuto.
Inoltre alcuni personaggi hanno un rapporto teso, dinamiche interne problematiche e questo accresce il livello di tensione. Abbiamo un gruppo di amici che si reca appunto in questo luogo per girare un documentario, il problema è che piano piano la situazione inizia a peggiorare, per problematiche varie e il gruppo si ritrova appunto isolato.
I personaggio a mio vedere sono ben costruiti, abbiamo chiare le loro dinamiche e sono figure che è facile seguire con interesse, non sono quelle macchiette di cui non ci importa nulla insomma.
Inoltre uno dei luoghi più inquietanti del villaggio è proprio la chiesa, che ha un ruolo molto importante anche nel comprendere il mistero, e dopo mesi di lettura nel mio cervello è rimasta impressa la descrizione del Cristo presente in questa chiesa che viene presentato non come una figura rassicurante o benevola, ma come una figura minacciosa, truce, con questi occhi quasi cattivi e torvi. Tra l’altro la chiesa diventerà proprio il campo base, il rifugio del gruppo che non si sente più sicuro ad un certo punto a dormire all’esterno.
La chiesa è presente anche in copertina ed è un collegamento alla trama base perché scopriremo solo in fase di lettura la sua importanza nel passato e nel presente.
Conclusioni
Questo thriller lo considero un testo assolutamente godibile, con una trama che tiene il lettore sul filo e in generale uno di quei testi che ti costringono a mangiare una pagina dopo l’altra. A parte qualche piccolo punto debole (come quello legato ad alcune scene nel finale) resta un testo perfetto per una lettura che riesce ad unire mistero, atmosfere tetre e rivelazioni oscure.
Lo consiglio assolutamente soprattutto se avete voglia di un libro carico di atmosfera e intrighi.
Voto:
E voi? Avete mai letto qualcosa di Camilla Sten? Sì? No? Vi è piaciuto? Fatemi sapere!
Come state? Come sta andando questa vita burrascosa? Spero nel migliore dei modi, nonostante le burrasche!
*esce dal tugurio in cui è stata in questi mesi*
Beh che dire… ehm, è passato un po’ di tempo dall’ultima volta in cui ci siamo letti. Purtroppo la dura verità è che in questi mesi ho avuto a malapena il tempo per ricollegare i miei pensieri in modo logico, mi sono imbarcata per due mesi in un doppio lavoro che mi ha risucchiato tutto il tempo, problemi vari, solite questioni spinose ed eccomi qui. Ora la situazione sembra essere tornata, non dico alla normalità, ma più tranquilla.
Quindi riprendiamo in mano la situazione amici, è il momento di ripartire!
E sappiamo qual’è il modo migliore per farlo, con una bella recensione, ma non una recensione qualsiasi, quella del libro per me top del 2024 (sì dobbiamo ancora parlarne, sì lo so sono in ritardo), ovvero “Cadavere Squisito” di Agustina Bazterrica.
Vi ho fatto attendere anche troppo, via con la recensione!
Mezzena. Storditore. Linea di macellazione. Lavaggio a spruzzo. Quelle parole gli si affacciano alla mente e lo colpiscono. Lo annientano. Ma non sono soltanto parole. Sono il sangue, l’odore acre, l’automatizzazione, l’assenza di pensiero. Irrompono nella notte, prendendolo alla sprovvista. Si sveglia col corpo bagnato da un velo di sudore perché sa che lo aspetta un altro giorno in cui dovrà macellare umani.
Trama
Marcos lavora nel mercato della carne da sempre, è un’attività di famiglia. Ma ora le cose sono cambiate, in modo radicale e irreversibile. Un virus ha attaccato gli animali, sia domestici che selvatici, per cui sono stati tutti sistematicamente abbattuti e la loro carne non può assolutamente essere consumata. Ora la carne che tratta è diversa, speciale, perché i governi di tutto il mondo hanno dovuto affrontare la situazione e hanno deciso di rendere legale l’allevamento, la produzione, la macellazione e la lavorazione della carne umana. Marcos si è dovuto adattare, cerca di non pensare a cosa fa per vivere, e fa del suo meglio per stare dietro a fornitori, clienti, ordini e consegne, perché deve pagare la casa di riposo in cui vive suo padre. E ora che sua moglie lo ha lasciato deve pensare a tutto da solo.
Recensione
Agustina Bazterrica è un’autrice argentina, ha pubblicato diversi testi e racconti brevi. “Cadavere Squisito” ha ricevuto un ottimo feedback soprattutto negli USA (ma anche in Italia), pubblicato con il titolo “Tender is the Flash” ha riscosso un ottimo successo.
Stile, Ritmo e Atmosfera
Lo stile dell’autrice è scattante, caratterizzato da frasi brevi e d’impatto per la maggior parte, è uno stile decisamente crudo in cui vengono sempre utilizzati termini diretti, violenti. Alcune parole nel mondo distopico in cui ci troviamo sono state sostituite, ma sappiamo qual è il loro vero significato, è evidente. Ritengo complesso gestire uno stile simile senza risultare o troppo freddi o troppo veloci, è uno stile a cui io fatidico ad avvicinarmi di solito proprio per la brevità e per il continuo scatto. L’ autrice a mio vedere è riuscita a gestire la scrittura alla perfezione, questo stile è ottimo per il tipo di testo in questione, per una storia così cattiva e fredda funziona questo ritmo.
L’atmosfera generale del libro è cruda, fredda, asettica, fortemente collegata a quei laboratori dove si macellano essere umani, si avverte sempre quel brivido dietro al collo, quella sensazione di freddo nelle ossa. Si avverte anche questa sensazione generale di ipocrisia, dell’avere a che fare con persone senza umanità, di essere all’interno di un mondo perduto che si è decisamente spinto troppo oltre.
Il ritmo è veloce, direi che questo libro tiene il lettore sempre “vigile”, proprio per le frasi brevi, il tono scattante come dicevamo, le immagini nitide proposte, risulta tutto piuttosto diretto, senza fronzoli.
Leggendo il libro mi sono sentita quasi all’interno di un incubo, si entra in questa spirale da cui si fa fatica ad uscire perché ogni pagina tira l’altra, il testo alimenta questa curiosità di andare avanti, gettarsi in questo mondo malato.
La violenza
Questo testo è violento, punto e basta, non c’è molto altro da dire, pensiamo solo alla trama base, ovvero un mondo in cui gli esseri umani vengono macellati e allevati come gli animali, ci si aspetta ovviamente di ritrovare all’interno del testo concetti/scene violente. Questo è un punto criticato del romanzo, ho letto varie opinioni in cui veniva fortemente attaccato questo aspetto del libro, per molti la violenza è eccessiva, senza senso o inserita con la forza a tutti i costi.
Io non sono personalmente d’accordo, dobbiamo considerare il tipo di mondo in cui ci troviamo e il tipo di narrazione che l’autrice ci presenta. A mio vedere la dose di violenza serve proprio a farci entrare in questo mondo che è appunto privo di umanità, la violenza è la normalità, i personaggi sembrano abituati a questa, quindi anche a noi lettori arriva come un qualcosa di “normale” tanto è comune.
Ci sono scene piuttosto lunghe in cui vediamo umani macellati, ci vengono presentanti tutti i passaggi facenti parte della catena di allevamento e macellazione, si entra nei dettagli delle descrizioni, dei passaggi, e di certo può disgustare questa visione. Oltre ad una violenza sanguinosa e fisica c’è anche poi una violenza psicologica, questi umani che vengono letteralmente allevati come animali nascono e crescono per essere macellati ovviamente, quindi a loro vengono tagliate le corde vocali, vengono privati di qualunque cosa, non c’è il minimo pensiero nei confronti dei loro bisogni, della loro vita. Non sono più esseri umani per la società, sono letteralmente carne da macello.
E all’inizio del testo io ho faticato ad entrare in quest’ottica perché è un qualcosa di talmente aberrante e inumano da stordire quasi il lettore, tra l’altro le scene di violenza, omicidi e sesso vengono presentante in modo quasi maniacale, morboso, è tutto esaltato e si avverte un senso generale di marciume nei confronti del mondo presente in questo testo.
Le critiche smosse
Il testo contiene diverse critiche alla nostra società, di certo una critica al capitalismo piuttosto diretta, ma anche una critica ad una società priva di umanità e una critica legata al mondo degli allevamenti intensivi. Ci possono essere ovviamente anche altre critiche perché è un testo che contiene a mio avviso moltissimi spunti di riflessione, ma io vi ho citato le tre più palesi a mio vedere.
Ciò che mi ha colpito molto di questo libro, come ho accennato varie volte, è il senso generale di assenza di umanità, ma non solo nei confronti degli esseri umani macellati e allevati come bestie, anche tra gli esseri umani “normali”, ovvero quelli che conducono una vita all’apparenza ancora normale, come prima dell’epidemia che ha lanciato poi il mondo verso il cambiamento. Anche tra loro sembra mancare umanità, ad esempio il rapporto tra Marcos e la sorella è una prova evidente di ciò, ma non solo, ci sono vari punti nel testo in cui emerge questa cattiveria, questa crudeltà.
“Perché lo è. Ma è proprio questo il bello, che accettiamo i nostri eccessi, li normalizziamo, abbracciamo la nostra essenza primitiva.”
Gli esseri umani vengono trattati come bestie e sembrano bestie in questo romanzo, ci vengono mostrati nella loro natura egoista e spregevole, si mangiano tra loro, non hanno la minima considerazione per gli altri, pensano solo alla propria soddisfazione.
Marcos, il protagonista è senza dubbio un mistero in parte, perché non si rivela mai del tutto se non alla fine e ci sono forse dei piccoli dettagli che ci fanno capire che in realtà non è chi dice di essere, brevi frangenti in cui emerge la sua personalità. Marcos si riempie la bocca con parole in cui sembra credere, ma i suoi comportamenti non rispecchiano queste parole, ma non dico altro.
È curioso vedere come in un mondo portato allo stremo, un mondo che ci sembra vicino al collasso, le persone ci tengano ancora a mantenere una “facciata”, un livello di ipocrisia assurdo.
Conclusioni
Ho amato questo testo, e metto le mani avanti dicendo che è sicuramente un libro che può non piacere o essere adatto a tutti. Ho amato proprio il lato cattivo di questo mondo, non ricordo quand’è stata l’ultima volta in cui ho letto un libro così duro, freddo, senza speranza, ovviamente dico “amato” perché lo trovo ben fatto, questa rappresentazione funziona ed è agghiacciante. È un libro con innumerevoli spunti di riflessione, personaggi interessanti e verità che pesano come un macigno.
Voto:
E voi? Avete letto “Cadavere Squisito”? Sì, no? Vi è piaciuto?
Finalmente è arrivato il momento di parlare di “Circe” di Madeline Miller, era ora! Ma prima di tutto, come state? Come sta andando questo marzo strano?
Abbiamo parlato in parte di “Circe” perché è stato nominato nella top five delle mie letture del 2024, ma abbiamo giusto spolverato la superficie, abbiamo toccato solo l’involucro esterno di questo pacchetto, non ci siamo addentrati in profondità nel contenuto, ma oggi è il giorno giusto per farlo!
“Circe” di Madeline Miller è un libro del 2018 che ha riscosso un enorme successo, si è parlato molto delle opere di questa autrice, in particolare di “Circe” appunto e de “La Canzone di Achille”, per mesi e mesi sono stati una presenza costante sui social e non solo, e devo dire che anche ora vengono citati ogni tanto.
Comunque, bando alle ciance, iniziamo con la recensione!
Circe – Madeline Miller
Casa editrice: Sonzogno/Feltrinelli
Genere: mitologia, fantasy
Prezzo di Copertina: € 18,90 (Ed. Feltrinelli: € 13,30)
Nacqui quando ancora non esisteva nome per ciò che ero. Mi chiamarono ninfa, presumendo che sarei stata come mia madre, le zie e le migliaia di cugine. Ultime fra le dee minori, i nostri poteri erano così modesti da garantirci a malapena l’immortalità. Parlavamo ai pesci e coltivavamo fiori, distillavamo la pioggia dalle nubi e il sale dalle onde. Quella parola, ninfa, misurava l’estensione e l’ampiezza del nostro futuro. Nella nostra lingua significa non solo dea, ma sposa.
Trama
Ci sembra di sapere tutto della storia di Circe, la maga raccontata da Omero, che ama Odisseo e trasforma i suoi compagni in maiali. Eppure esistono un prima e un dopo nella vita di questa figura, che ne fanno uno dei personaggi femminili più fascinosi e complessi della tradizione classica. Circe è figlia di Elios, dio del sole, e della ninfa Perseide, ma è tanto diversa dai genitori e dai fratelli divini: ha un aspetto fosco, un carattere difficile, un temperamento indipendente; è sensibile al dolore del mondo e preferisce la compagnia dei mortali a quella degli dèi. Quando, a causa di queste sue eccentricità, finisce esiliata sull’isola di Eea, non si perde d’animo, studia le virtù delle piante, impara a addomesticare le bestie selvatiche, affina le arti magiche. Ma Circe è soprattutto una donna di passioni: amore, amicizia, rivalità, paura, rabbia e nostalgia accompagnano gli incontri che le riserva il destino – con l’ingegnoso Dedalo, con il mostruoso Minotauro, con la feroce Scilla, con la tragica Medea, con l’astuto Odisseo, naturalmente, e infine con la misteriosa Penelope. Finché – non più solo maga, ma anche amante e madre – dovrà armarsi contro le ostilità dell’Olimpo e scegliere, una volta per tutte, se appartenere al mondo degli dèi, dov’è nata, o a quello dei mortali, che ha imparato ad amare. Poggiando su una solida conoscenza delle fonti e su una profonda comprensione dello spirito greco, Madeline Miller fa rivivere una delle figure più conturbanti del mito e ci regala uno sguardo originale sulle grandi storie dell’antichità.
Recensione
Circe è il secondo libro di Madeline Miller ed è stato pubblicato il 10 aprile 2018 in lingua originale inglese, il libro è stato tradotto in altre sei lingue tra cui l’italiano e ha avuto buoni riscontri da parte della critica, tanto da essere stato finalista per il Women’s Prize for Fiction.
Come dicevamo ha riscontrato un grande successo, soprattutto in America e Inghilterra dove per settimane si è guadagnato i primi posti delle classifiche.
Stile, Ritmo e Atmosfera
Lo stile dell’autrice è assolutamente godibile, ben equilibrato, evocativo, si adatta al meglio alla vicenda e ai fatti narrati, insomma funziona bene e non ho particolari appunti o critiche da smuovere. La scrittura della Miller non risulta mai pesante o frastagliata o troppo arzigogolata, come dicevo è ben equilibrata, ovviamente ci sono momenti più lenti nella narrazione, ma lo stile resta piacevole e anzi in alcune scene l’autrice riesce secondo me, per un connubio di termini, sinuosità della prosa, immagini scelte, a creare istanti decisamente vividi in cui la narrazione sembra sospesa e ci si ritrova in questa bolla ad ammirare la scena descritta.
È di certo un romanzo in cui ci si gode la sequenza, le avventure, ci si imbarca in un viaggio e anche per questo ci sono momenti in cui il ritmo è più concitato e altri in cui è più rilassato e lento, anche se guardando in toto il romanzo direi che il ritmo è piuttosto disteso per la maggior parte delle vicende. La Miller si prende il tempo per la descrizione di alcune scene significative, ma non diventa mai pedante o eccessiva.
L’atmosfera generale è quella di un mondo sospeso, Circe nasce e cresce nell’Olimpo assieme a divinità, ninfe e titani, ma è evidente che quello non è il suo mondo, non riesce ad incastrarsi lì in mezzo a quelle creature che ci appaiono come egoiste ed egocentriche. Viene poi a contatto con gli esseri umani e successivamente esiliata sull’isola di Eea. Circe si muove nel mondo, ma personalmente ho avvertito sempre questo senso di sospensione dato dall’incertezza per il futuro di Circe e dalla sua difficoltà nell’entrare a pieno nel mondo, che sia quello divino o quello umano, che comunque le va più a genio. Leggendo il testo sembra di navigare assieme a Circe in un mondo sconosciuto, incerti nei confronti del futuro, provando questo senso di sospensione prima della tempesta.
Lo stile dell’autrice riesce a delineare davanti agli occhi del lettore le immagini, le atmosfere e le scene tipiche del mondo degli dèi per come ci viene descritto e di quello umano che a tratti tocca il divino.
Il vero potere di Circe
Nell’immaginario collettivo Circe è la maga Circe, ovvero colei che nell’Odissea trasforma in maiali i membri dell’equipaggio di Ulisse.
Circe in realtà ha una storia molto più ampia ed interessante che viene esplorata in questo testo, la seguiamo infatti dalla nascita all’età adulta, anche se stiamo comunque parlando di una figura immortale, che ha però un suo preciso processo di crescita ed è chiara la sua evoluzione attraverso le esperienze che vive e che la forgiano in un modo o nell’altro.
La sua infanzia è burrascosa nell’Olimpo, figlia del Titano Elios (dio del sole) e della ninfa Perseide, è sorella di Perse, Eete e Pasifae. Circe viene derisa dalla madre e dai fratelli per la sua apparente mancanza di un vero dono e per il suo non riuscire ad integrarsi nell’Olimpo, Circe infatti non riuscirà mai ad entrare pienamente nella mentalità degli dèi e delle ninfe che abitano questo luogo. Il padre sembra mal sopportarla, ma è l’unica figura con cui in giovane età Circe sembra avvicinarsi per cercare protezione fino alla nascita di Eete, fratello ripudiato dalla madre Perseide che Circe cresce da sola più come un figlio che come un fratello.
Parleremo meglio della dinamica fra Circe e il padre Elios a breve, prima vorrei concentrarmi sull’evoluzione di Circe e sul come questa venga rappresentata al meglio nel corso del volume.
Circe cresce fra una mancanza e l’altra e una delle prime esperienze che cambiano il suo modo di vedere il mondo è l’incontro con il Titano Prometeo, colui che rubò il fuoco dall’Olimpo per donarlo agli esseri umani e che venne punito da Zeus con un castigo eterno. Questo incontro proibito lascia spazio ad un dialogo fra lei e Prometeo che inizia a seminare il germe della curiosità e della fascinazione di Circe verso gli umani.
La ninfa finirà per innamorarsi di un umano infatti e farà di tutto per trasformarlo in dio, peccato che gli eventi non seguiranno il corso sperato da Circe e questo una volta diventato dio, gli preferirà un’altra ninfa. Circe distrutta dal dolore e dalla rabbia trasformerà la ninfa in mostro, passato alle leggende con il nome di Scilla.
Circe inizia quindi a comprendere di avere dei poteri che avrà modo di coltivare una volta esiliata sull’isola di Eea dopo un duro scontro con il padre che segna la rottura definitiva fra i due.
Qui Circe vive varie avventure, tra cui anche l’incontro con Ulisse da cui nascerà il figlio Telegono.
La Circe che incontriamo all’inizio è molto diversa da quella che ci lasciamo alle spalle una volta terminata la lettura, Circe da ninfa sperduta, rinnegata e smarrita diventa una strega/maga molto potente, madre di un figlio, una donna che ha avuto modo di conoscere gli esseri umani e di preferirli agli dèi. Nonostante il castigo e l’esilio Circe riesce comunque a scoprire almeno una parte di mondo e a costruire legami importanti.
Circe conquista la maturità necessaria per affrontare finalmente il padre e per sistemare gli errori commessi come la trasformazione di Scilla da ninfa bellissima a mostro spietato. Anche il suo atteggiamento nei confronti della vita e del rapporto con gli umani cambia drasticamente nel corso del romanzo.
“Le donne umiliate mi sembrano il passatempo preferito dei poeti. Quasi non possa esistere storia senza che noi strisciamo o piangiamo.”
Insomma l’autrice è riuscita a pieno nel rappresentare l’evoluzione di un personaggio sotto tutti i suoi aspetti, quello caratteriale, quello legato all’evoluzione dei propri poteri e quello legato al suo approccio nei confronti del mondo e di se stessa.
Questi dèi spocchiosi sono ovunque
Ah, parliamo di un tema presente nel romanzo su cui l’autrice sicuramente insiste molto e che io ho personalmente apprezzato. Ovvero la critica al mondo dell’Olimpo e il rapporto fra Circe e la sua famiglia.
Come dicevo dalla lettura emerge un quadro piuttosto negativo del mondo degli dèi, Circe è circondata da esseri egocentrici ed egoisti, a cui importa solo di essere più forti di altri dèi, per loro tutto è volatile, sono creature immortali che hanno già visto tutto quello che c’era da vedere e lo faranno per sempre, quindi sono annoiati, rinchiusi in una prigione di arroganza, una notizia nuova di cui parlare è già vecchia il giorno dopo, sono creature che non danno realmente peso alle tragedie che provocano.
Un tempo pensavo che gli dèi fossero opposti alla morte, ma adesso vedo che sono più morti che altro, perché sono immutabili, e non possono trattenere nulla nelle mani.
E così appare anche il padre di Circe, Elios, una figura che all’inizio sembra supportare Circe rispetto agli altri membri della famiglia, ma egli si rivela ben presto un’essere a cui importa solo di dimostrare agli altri il proprio potere e non sembra né comprensivo, né tollerante nei confronti di una figlia che sbaglia e che non sembra avere doni o poteri.
Il rapporto fra Circe e Elios è uno dei temi più interessanti del romanzo, questa dinamica di odio e amore o meglio dire ammirazione e rifiuto che si ripresenta in varie fasi del testo è fonte di riflessione e crescita per Circe. Elios punisce la figlia in modo doloroso ed umiliante, la lascia sola nel suo castigo (anche se Circe sa che la guarda) e l’abbandona.
Stessa cosa vale per gli altri membri della famiglia, la madre Perseide non la considera nemmeno sua figlia e l’abbandona come il padre, il fratello Perse non ha molto a che fare con Circe, la sorella Pasifae, moglie di Minosse, invece la chiamerà in aiuto al momento del parto del Minotauro, evento in cui Circe farà la conoscenza di Dedalo con cui darà vita ad un rapporto. In questa occasione infatti Circe dal suo esilio si reca a Creta e oltre ad assistere la sorella, che sembra essere stata costretta dalle circostanze alla chiamata, incontra per la prima volta anche la nipote Arianna, colei che si innamorerà di Teseo.
Ho apprezzato particolarmente questa avventura a Creta di Circe, le scene che dipinge Madeline Miller, i dialoghi, l’ambientazione, senza parlare del fatto che il tutto è particolarmente evocativo ed intenso in queste scene. C’è anche una scena in cui Circe di notte si immerge in questo lago sotto ad una montagna, è sporca di sangue e ferita dopo aver aiutato Pasifae a partorire e decide di fare il bagno in questo lago, alla luce della luna, con i suoni della notte, una scena meravigliosa.
Parlando dell’ultimo fratello invece, colui che Circe cresce come un figlio e con cui ha il legame più forte a livello famigliare, diciamo che la vicenda ci mostra un Eete molto diverso da quel fratello che giocava con Circe nell’Olimpo e che la ninfa amava profondamente.
Conclusioni
Circe è un libro che vi consiglio, sia che siate amanti della mitologia greca sia che siate lontani da tutto ciò che ha a che fare con un retelling di un mito greco. Abbiamo l’atmosfera dell’Olimpo, degli dèi, dei mostri, il concetto di divino e di eternità certo, ma abbiamo anche un discorso universale e umano, quello della crescita e della trasformazione, del dolore, dell’essere in grado di risollevarsi e trovare la propria natura, ma anche quello dell’amore.
Circe è personaggio che all’inizio soffre molto ed emerge questo senso di sofferenza e odio per l’ambiente in cui si trova e per il suo sentirsi inadatta, ma con il tempo conquista ciò che è suo e trova la sua forza.
I personaggi che arriviamo a conoscere sono ben caratterizzati e funzionano bene nel quadro generale del romanzo.
Se devo muovere una piccola critica, o comunque sottolineare un aspetto che non mi ha convinta, è la parte centrale del romanzo che in brevi tratti rallenta e perde un poco di vigore rispetto al resto del testo. In più non ho amato molto la parentesi legata all’amore fra Circe e Ulisse, ma anche nel mito originale non sono mai stata entusiasta o particolarmente attratta da questa coppia, qui ho trovato le scene in cui Ulisse resta su Eea con la ninfa un poco pedanti a tratti.
Voto:
E voi? Avete mai letto “Circe”? Sì? Vi è piaciuto? No? Perché? Fatemi sapere!
Come state? Come avete passato le precedenti giornate di festa? Anche voi come tutti gli anni vi siete abbuffati/e vostro malgrado nella bolgia delle cene e dei pranzi natalizi?
Comunque, parliamo di cose belle oggi, momenti e letture gradevoli, gioia e letizia, ovvero le cinque letture top del 2024. Abbiamo parlato delle letture semi-flop e ora è il momento dei libri migliori di quest’anno che si avvia alla fine, per fortuna oserei dire, dato che sono stati dodici mesi assai burrascosi in cui comunque, non so assolutamente come, sono riuscita a rispettare il mio obbiettivo di lettura stilato a inizio 2024, ma ne parleremo meglio nell’articolo dedicato agli obbiettivi per il 2025 e al recap del 2024.
Piccola postilla fatta anche nell’articolo precedente, dei libri di cui non abbiamo ancora parlato uscirà nelle prossime settimane/mesi una recensione dedicata, abbiamo tanti libri di cui parlare dato che dobbiamo recuperare varie recensioni.
Ci sembra di sapere tutto della storia di Circe, la maga raccontata da Omero, che ama Odisseo e trasforma i suoi compagni in maiali. Eppure esistono un prima e un dopo nella vita di questa figura, che ne fanno uno dei personaggi femminili più fascinosi e complessi della tradizione classica. Circe è figlia di Elios, dio del sole, e della ninfa Perseide, ma è tanto diversa dai genitori e dai fratelli divini: ha un aspetto fosco, un carattere difficile, un temperamento indipendente; è perfino sensibile al dolore del mondo e preferisce la compagnia dei mortali a quella degli dèi. Quando, a causa di queste sue eccentricità, finisce esiliata sull’isola di Eea, non si perde d’animo, studia le virtù delle piante, impara a addomesticare le bestie selvatiche, affina le arti magiche. Ma Circe è soprattutto una donna di passioni: amore, amicizia, rivalità, paura, rabbia, nostalgia accompagnano gli incontri che le riserva il destino – con l’ingegnoso Dedalo, con il mostruoso Minotauro, con la feroce Scilla, con la tragica Medea, con l’astuto Odisseo, naturalmente, e infine con la misteriosa Penelope. Finché – non più solo maga, ma anche amante e madre – dovrà armarsi contro le ostilità dell’Olimpo e scegliere, una volta per tutte, se appartenere al mondo degli dèi, dov’è nata, o a quello dei mortali, che ha imparato ad amare.
Questo libro è famosissimo, come la sua autrice di cui io non avevo ancora letto nulla. Stiamo parlando di un retelling di un mito greco, anzi più miti perché comunque si accenna anche a molti altri miti che si intersecano con la storia di Circe o hanno comunque una loro funzione all’interno del testo. Le descrizioni di questo libro mi hanno colpita molto, sono evocative, vivide, intense, perché funzionano bene per il tono generale del libro. Ad esempio ricordo ancora con precisione una scena in cui Circe sporca di sangue si lava in questo lago sotto alla luce della luna, è un momento quasi magico, c’è qualcosa che la Miller riesce a costruire al meglio in tante scene di questo romanzo, un perfetto equilibrio tra vividezza delle descrizioni, ritmo narrativo ed intensità delle scene. Inoltre questo è un vero retelling, non una copia dei miti originali con una virgola fuori posto o un testo che non c’entra niente con il mito in questione, Circe è un testo fedele ai miti originali senza essere un copia-incolla. Madaline Miller ha fatto un ottimo lavoro di scrittura e struttura narrativa, seguiamo Circe attraverso diverse peripezie dall’infanzia nell’Olimpo all’esilio sull’isola di Eea, dal viaggio a Creta per aiutare la sorella Pasifae a far nascere il Minotauro all’incontro con Ulisse fino alla nascita di Telegono e alle vicende successive alla nascita del bambino. Ho adorato la rappresentazione del rapporto padre-figlia fra Circe e Elios, dio del Sole, burrascoso e problematico, sono tanti gli episodi in cui abbiamo modo di assistere a queste dinamiche ed emerge la sofferenza di Circe, ma soprattutto la delusione per un padre che credeva diverso e che invece si dimostra insensibile e indifferente ai figli, una figura egoista come la maggior parte degli dei rappresentati, se non tutti. Interessante anche la rappresentazione e le riflessioni di Circe infatti sull’Olimpo, sulla differenza fra umani e dei. Da questo testo emerge un quadro assai negativo delle divinità, rappresentate come esseri appunto egoisti, vanitosi, concentrati solo sul tornaconto personale, figure a cui importa solo del potere, esseri capricciosi, annoiati da un’esistenza immortale, figure per cui non c’è un valore negli altri, se una ninfa promessa sposa viene trasformata in un mostro, pazienza si passa alla prossima, il giorno successivo è già una notizia vecchia. Insomma, ne parleremo meglio nella recensione dedicata, ma questo testo mi ha stupita, capisco l’amore dei lettori nei suoi confronti.
Stati Uniti, metà del secolo scorso. La famiglia Galvin è la personificazione del sogno americano: Don e Mimi mettono al mondo dodici figli – dieci maschi e due femmine – sani e intelligenti, campioni negli sport e nella musica. Ma le cose, con l’adolescenza, cominciano a non andare come dovrebbero. Uno dopo l’altro, sei dei ragazzi iniziano a mostrare comportamenti strani e aggressivi, in una spirale di allarme, violenze e angoscia che si conclude con una diagnosi di schizofrenia. In un’epoca in cui psicanalisti, genetisti e biologi si scontrano per affermare le proprie teorie sull’origine della malattia mentale, i Galvin si trovano protagonisti di una ricerca che a tutt’oggi non ha dato risposte precise, tra manicomi, misure contenitive, psicofarmaci ed elettroshock. Attraverso la loro vicenda, realmente accaduta, Robert Kolker offre un pungente, incredibile viaggio nella realtà della malattia mentale, e uno spaccato dei progressi scientifici che hanno tentato di far luce su uno dei mali più oscuri e universali dell’essere umano.
Abbiamo qui un saggio/biografia che analizza il disfacimento di una famiglia americana all’apparenza perfetta, composta da quattordici membri in totale compresi i genitori, che pian piano inizia a sgretolarsi per varie problematiche legate a sei dei dodici figli, in realtà vedremo anche che questa famiglia ha altri problemi oltre a queste problematiche. Problematiche che all’inizio non vengono comprese, non si sa cosa abbiano di preciso i sei ragazzi, fino a quando non si scopre che soffrono di schizofrenia. Seguiamo quindi la famiglia Galvin attraverso un’epopea di drammi famigliari, cure sbagliate, violenze (fisiche, sessuali, psicologiche), incapacità di gestire la situazione anche per il tempo in cui ci troviamo e per la mancanza di progressi in quegli anni nei confronti di una cura o di un metodo realmente efficace per gestire la schizofrenia. Ovviamente parliamo di una vicenda realmente accaduta e sono tanti i personaggi da seguire, quindi è facile fare confusione, personalmente non mi ha convita del tutto la struttura di questo testo, dato il numero di figure si poteva impostare in un modo più preciso e ordinato, invece qui seguiamo un ordine diciamo temporale, ma saltiamo comunque da una figura all’altra e molti aspetti/eventi vengono ripetuti troppe volte senza aggiungere più di tanto. Ad esempio viene detto per l’ennesima volta che Peter (faccio un esempio) ha picchiato John, o che Michael ha picchiato Jim, ma non viene detto altro, a volte si scende nei dettagli di qualche evento drammatico famigliare, altre invece si menziona un fatto e basta, lo si fa in una frase sola che nel caso di queste risse troviamo molto spesso nel testo. Nel corso dei vari capitoli incentrati ogni volta su un personaggio diverso a rotazione più o meno, ci sono anche capitoli dedicati all’aspetto più scientifico e legati all”evoluzione medica nei confronti dello studio della schizofrenia, capitoli di pura saggistica. Allora, ho deciso di assegnare a questo libro la quarta posizione con una certa insicurezza, perché potrebbe anche essere considerato un quinto posto, come vi dicevo ciò che non mi ha convinta è la struttura e la ripetizione di vari concetti/eventi/ragionamenti che rendono il libro pesante a tratti, nonostante l’interesse per il tema e la scoperta di eventi interessanti non conosciuti. Inoltre i capitoli medici sono molto dettagliati, specialistici oserei dire ed è facile perdersi. Non è un libro che consiglio a tutti, vi deve interessare il tema altrimenti potrebbe risultare una lettura pesante e snervante. Ho deciso comunque di inserirlo nei libri top perché è stato un viaggio leggere questo testo e ho scoperto molti fatti interessanti, è stata una vera esperienza.
L’Acqua del Lago non è Mai Dolce – Giulia Caminito
Odore di alghe limacciose e sabbia densa, odore di piume bagnate. È un antico cratere, ora pieno d’acqua: è il lago di Bracciano, dove approda, in fuga dall’indifferenza di Roma, la famiglia di Antonia, donna fiera fino alla testardaggine che da sola si occupa di un marito disabile e di quattro figli. Antonia è onestissima, Antonia non scende a compromessi, Antonia crede nel bene comune eppure vuole insegnare alla sua unica figlia femmina a contare solo sulla propria capacità di tenere alta la testa. E Gaia impara: a non lamentarsi, a salire ogni giorno su un regionale per andare a scuola, a leggere libri, a nascondere il telefonino in una scatola da scarpe, a tuffarsi nel lago anche se le correnti tirano verso il fondo. Sembra che questa ragazzina piena di lentiggini chini il capo: invece quando leva lo sguardo i suoi occhi hanno una luce nerissima. Ogni moto di ragionevolezza precipita dentro di lei come in quelle notti in cui corre a fari spenti nel buio in sella a un motorino. Alla banalità insapore della vita, a un torto subito Gaia reagisce con violenza imprevedibile, con la determinazione di una divinità muta. Sono gli anni duemila, Gaia e i suoi amici crescono in un mondo dal quale le grandi battaglie politiche e civili sono lontane, vicino c’è solo il piccolo cabotaggio degli oggetti posseduti o negati, dei primi sms, le acque immobili di un’esistenza priva di orizzonti.
Non mi dilungherò più di tanto perché abbiamo già parlato nello specifico di questo libro in una recensione approfondita (che vi lascio qui). Riconosco a questo testo anche il merito di avermi aiutata nello sbloccarmi a livello di letture perché nei primi sei mesi del 2024 ero ancora piuttosto bloccata come nel 2023 e dopo questa lettura si è aperta la diga. Come ho scritto nella recensione mi è piaciuto molto questo romanzo, unico neo lo stile in alcuni punti un poco ripetitivo e pesante. È stata una lettura coinvolgente e intensa, con momenti/scene che ricordo in modo molto vivido, in più il mood generale del testo ha qualcosa di affascinante, sembra davvero di essere immersi in un lago in cui si fatica a restare a galla, si prova la sensazione di avere le classiche “orecchie tappate” come quando si è sott’acqua, ci si sente intrappolati in un contesto/destino reale ma feroce e insensibile, crudo nel suo realismo.
Nel penitenziario di Cold Mountain, lungo lo stretto corridoio di celle noto come Il Miglio Verde, i detenuti come lo psicopatico Billy the Kid Wharton o il demoniaco Eduard Delacroix aspettano di morire sulla sedia elettrica, sorvegliati a vista dalle guardie. Ma nessuno riesce a decifrare l’enigmatico sguardo di John Coffey, un nero gigantesco condannato a morte per aver violentato e ucciso due bambine. Coffey è un mostro dalle sembianze umane o un essere in qualche modo diverso da tutti gli altri?
Beh, che dire, io sapevo pochissimo di questo testo prima di iniziare la lettura, non avevo mai visto il film ne approfondito in un qualche modo la trama, anche per mia volontà, volevo l’effetto sorpresa al momento della lettura. È uno dei romanzi più amati e conosciuti di King per un motivo, seguiamo Paul, supervisore all’interno del braccio della morte nel penitenziario di Cold Mountain, che deve gestire l’arrivo di diverse figure come Billy the kid Wharton, un violento psicopatico, Eduard Delacroix, strambo e diabolico e infine John Coffey, un afroamericano alto e possente condannato a morte per un crimine su cui ci sono dei dubbi. È un libro con forti tratti di realismo magico, uno di quei libri che ti portano mano nella mano attraverso una vicenda enorme, che ingloba molte più parentesi e personaggi rispetto a ciò che si può vedere ad un primo sguardo. Abbiamo la rappresentazione della pena di morte, quella mistica legata ai poteri di Coffey, un essere che ci appare come innocente, puro, condannato però ad una pena crudele ed ingiusta, un essere sofferente, martoriato nello spirito. Ci sono anche diversi parallelismi importanti nel testo, simboli ricorrenti, dato che seguiamo Paul dall’età adulta, nella sua esperienza come supervisore appunto, fino al trasferimento in un ospizio abbiamo modo di ricollegare molti punti cruciali della sua vita, che lui ci racconta, molti legati alle sue esperienze a Cold Mountain. È un libro pieno di collegamenti, significati evidenti o meno, simbolismi, tematiche importanti, si prova la sensazione a fine lettura di aver vissuto la stessa vita vissuta dal protagonista assieme a lui, avete presente il sentirsi addosso quei 50/60 anni in più che si sente di aver vissuto, ma in realtà siamo semplicemente entrati così tanto nella narrazione e nella vita del personaggio in questione da sentirci cuciti addosso a lui? Potente, vivo, splendido.
Marcos lavora nel mercato della carne da sempre, è un’attività di famiglia. Ma ora le cose sono cambiate, in modo radicale e irreversibile. Un virus ha attaccato gli animali, sia domestici che selvatici, per cui sono stati tutti sistematicamente abbattuti e la loro carne non può assolutamente essere consumata. Ora la carne che tratta è diversa, speciale, perché i governi di tutto il mondo hanno dovuto affrontare la situazione e hanno deciso di rendere legale l’allevamento, la produzione, la macellazione e la lavorazione della carne umana. Marcos si è dovuto adattare, cerca di non pensare a cosa fa per vivere, e fa del suo meglio per stare dietro a fornitori, clienti, ordini e consegne, perché deve pagare la casa di riposo in cui vive suo padre. E ora che sua moglie lo ha lasciato deve pensare a tutto da solo.
Wow, quanto mi è piaciuto questo libro. L’ho letto questa estate, durante le ferie e l’ho divorato, non vedevo l’ora di liberami da qualunque cosa per tornare alla lettura. Anche qui sono stata parecchio indecisa se assegnare il primo o il secondo posto, e lo considero quasi un ex aequo. È un libro particolare di cui parleremo assolutamente in una recensione specifica perché c’è tanto da dire, ma anche questo è un testo che non so se consigliare a tutti perché è davvero crudele, cattivo come libro oserei dire e molto crudo. Siamo in una distopia in cui gli umani vengono macellati e lavorati come gli animali, è un mondo in cui per colpa di un virus che ha attaccato gli animali questi sono stati abbattuti tutti e non è più possibile mangiare carne se non quella umana, per cui sono nati dei veri e propri allevamenti di umani e anche un vero e proprio traffico di umani, esseri privati di tutto anche della parola dato che sono state tagliate loro le corde vocali, umani che non sono più umani. È un testo brutale, inquietante, violento, feroce, e inumano perché in questo mondo non c’è più umanità. Questo è anche uno dei temi principali del romanzo e uno di quelli che io trovo più affascinanti, ovvero la mancanza di umanità, cosa ci rende umani, cosa vuol dire essere umani e cosa accade quando questa umanità viene a mancare. È una una critica anche al capitalismo, ad un sistema malato, ad un mondo disumanizzato e disumanizzante. Il protagonista si presenta come diverso, nel corso della narrazione sembra volersi convincere e convincere il lettore di non essere “come gli altri”, di saper ancora distinguere ciò che ci rende umani da ciò che ci priva di identità, ma in realtà in questa distopia tutto è diventato così malato, tutti sono così anestetizzati al mondo, agli altri a loro stessi, da portarci a pensare che non c’è più speranza. È una rappresentazione crudele, un mondo perso.
E voi? Quali sono state le vostre letture top del 2024?
Ci leggiamo presto per il recap del 2024 e gli obbiettivi di lettura del 2025, massimo nei primi giorni del 2025, quindi in caso non dovessimo leggerci prima dell’anno nuovo, buon Capodanno, buon anno nuovo!
Come state? Come vi sentite in questi giorni pre-natalizi? Vi siete organizzati al meglio o come la sottoscritta (e come ogni anno oserei dire) siete nel pieno caos?
Oggi parliamo dei libri flop o semi-flop in questo caso del 2024, uno dei classici tre articoli che ci tengo sempre a portare nell’ultimo mese dell’anno sul blog. Ovviamente ne uscirà anche uno sui libri top e uno sui progetti di lettura per il 2025/recappone degli obbiettivi del 2024, spero per questi due articoli di riuscire nella pubblicazione entro la fine dell’anno (soprattutto per quello che riguarda i libri top), in caso contrario usciranno di certo nei primi giorni del 2025 o negli ultimi giorni dell’anno.
Allora, ora parliamo dell’articolo di oggi! Perché “semi-flop” e non “flop” come tutti gli anni? Perché quest’anno non ho letto libri al 100% flop, devo essere sincera con voi quando dico che in linea di massima ho letto dei bei libri quest’anno, non tutti testi da amare per la vita, da cinque stelle piene o per cui strapparsi i capelli certo, ma tutto sommato belle letture.
Tra questi ci sono stati testi che mi hanno convinta di meno e che mi sono piaciuti di meno, ma non ho trovato testi da criticare aspramente in toto, o da etichettare come “brutte letture”, semplicemente tra i libri letti alcuni non mi hanno convinta.
Come sempre ci tengo a sottolineare che inserendo determinati libri in questa lista non voglio sottolineare il mio odio nei loro confronti o aprire una petizione per bandirli dal commercio, voglio solo dire che personalmente non ho gradito più di tanto queste letture, per una serie di motivi, non ho nulla contro questi testi e se a voi sono piaciuti vi prego di non offendervi per questi inserimenti.
Ci sono tra l’altro testi piuttosto “caldi” e amati generalmente da molti lettori, anche per questo vi chiedo di non offendervi, ma anzi di dirmi (se vi è piaciuto molto un testo fra quelli presenti) il vostro parere, che sono curiosissima di leggere!
Ah ultima cosa, partiremo dal quinto posto (quindi in teoria il “meno flop” tra i semi-flop) per arrivare al primo che per la mia personalissima opinione è il libro che mi ha convinta meno fra le letture di quest’anno.Dei testi di cui manca la recensione completa sul blog, sappiate che uscirà nei prossimi mesi/settimane, detto ciò iniziamo!
Non esiste un’età senza paura. Siamo fragili sempre, da genitori e da figli, quando bisogna ricostruire e quando non si sa nemmeno dove gettare le fondamenta. Ma c’è un momento preciso, quando ci buttiamo nel mondo, in cui siamo esposti e nudi, e il mondo non ci deve ferire. Per questo Lucia, che una notte di trent’anni fa si è salvata per un caso, adesso scruta con spavento il silenzio di sua figlia. Quella notte al Dente del Lupo c’erano tutti. I pastori dell’Appennino, i proprietari del campeggio, i cacciatori, i carabinieri. Tutti, tranne tre ragazze che non c’erano più. Amanda prende per un soffio uno degli ultimi treni e torna a casa, in quel paese vicino a Pescara da cui era scappata di corsa. A sua madre basta uno sguardo per capire che qualcosa in lei si è spento: i primi tempi a Milano aveva le luci della città negli occhi, ora sembra che desideri soltanto scomparire, si chiude in camera e non parla quasi. Lucia vorrebbe tenerla al riparo da tutto, anche a costo di soffocarla, ma c’è un segreto che non può nasconderle. Sotto il Dente del Lupo, su un terreno che appartiene alla loro famiglia e adesso fa gola agli speculatori edilizi, si vedono ancora i resti di un campeggio dove tanti anni prima è successo un fatto terribile. A volte il tempo decide di tornare indietro: sotto a quella montagna che Lucia ha sempre cercato di dimenticare, tra i pascoli e i boschi della sua età fragile, tutti i fili si tendono. Stretta fra il vecchio padre così radicato nella terra e questa figlia più cocciuta di lui, Lucia capisce che c’è una forza che la attraversa. Forse la nostra unica eredità sono le ferite.
Ho letto questo testo a settembre e lo ritengo un libro altalenante, ci sono momenti interessanti soprattutto all’inizio e momenti calanti, e arrivata alla fine ho avvertito la sensazione di non avere “nulla in mano”, mi è rimasto poco di questa lettura. Il testo sembra unire due storie in cui la protagonista è presente, ma queste non si legano e se la seconda forse viene approfondita maggiormente, la prima che riguarda il presente di Lucia non arriva da nessuna parte. L’ autrice inserisce diverse tematiche, il rapporto madre-figlia, la difficoltà di affacciarsi alla vita accademica in una città nuova, il fallimento, il divorzio, il trauma, l’insicurezza, ma non arriva ad analizzare nessuna di queste nel profondo. L’ho trovato un testo poco approfondito, c’è del potenziale alla base perché il libro ha una buona partenza e lo stile di Donatella di Pietrantonio è godibile, ma si perde troppo, ad un certo punto la vicenda viene quasi sintetizzata, ristretta all’osso, molte parentesi vengono lasciate aperte, il che può non essere un tratto negativo se si riesce comunque ad analizzare una parentesi e ad arrivare al fondo di questa senza per forza chiuderla, ma qui tutto sembra lasciato aperto, sospeso, perso nell’aria.
Da trent’anni, da quando la rivoluzione sessuale ha bussato alla sua porta, il professor David Kepesh tiene fede al suo giuramento: non avere mai una relazione stabile con una donna. Ma un giorno, nell’aula del suo corso di critica letteraria all’università, entra Consuela Castillo, ventiquattrenne di una bellezza conturbante, una ragazza cubana alta e affascinante che scatena il desiderio e la gelosia del maturo professore.
Questo è stato il mio primo approccio con Roth, non ho fatto calcoli particolari per scegliere il primo testo da affrontare, semplicemente ho scelto questo per curiosità. Il libro ha qualcosa di interessante, di speciale nella narrazione. Il narratore non è certo un personaggio piacevole, ma alcuni passaggi e ragionamenti sono interessanti, il problema è che anche qui questo testo non mi ha lasciato nulla, ricordo pochissimo il che di solito non è mai un buon segno nel mio caso, perché generalmente ho una memoria molto buona anche per le letture. Certi discorsi del narratore diventano ripetitivi, si cade sempre negli stessi temi e a volte si aprono queste considerazioni infinite che vanno sempre a parare nella stessa direzione. È uno di quei libri in cui si deve accettare la natura/personalità del narratore (o comunque sospendere un proprio giudizio) per poter apprezzare la vicenda e vi dirò, anche dopo averlo fatto risulta comunque pesante e ripetitivo in alcuni punti. È un libro in cui i ragionamenti interessanti sono nascosti dietro ad uno strato di sessualizzazione continua, ascoltiamo quest’uomo che non fa altro che ventarsi delle sue esperienze sessuali con le studentesse, di libertà sessuale, di ossessione sessuale, ma questo rientra comunque nella tipologia di personaggio con cui abbiamo a che fare fin dall’inizio, il problema è che a lungo andare diventa stancante questa ripetitività.
Un mattino, Gregor Samsa, commesso viaggiatore, si sveglia da sogni inquieti e si ritrova trasformato in un immane insetto; anni dopo, Anders, personal trainer in un’anonima palestra di una città indefinita, si sveglia e scopre di essere diventato di un innegabile marrone scuro. L’incredulità presto cede il passo alla furia omicida: Anders si sente vittima di un crimine, «un crimine che gli aveva portato via ogni cosa, che gli aveva portato via se stesso», si scaglia contro la propria immagine allo specchio, si rimette a letto sperando che quell’uomo scuro se ne vada, chiama al lavoro per dire che è malato, molto malato, piú di quanto immaginasse, si aggira per la città e scopre che «le persone che lo conoscevano non lo conoscevano piú», e infine telefona a Oona. Oona, giovane insegnante di yoga, sta provando a prendersi cura di sua madre – e di se stessa – dopo la morte del fratello gemello; fra lei e Anders si è da poco riaccesa un’attrazione nata fra i banchi di scuola, ma quando Oona passa da lui dopo il lavoro, rimane di stucco di fronte all’uomo che le apre la porta, e sulle prime fatica a riconoscerlo. Ciò che Oona e Anders ancora non sanno è che la trasformazione sta prendendo piede ovunque: tutte le persone bianche stanno diventando scure, e la tensione sociale continuerà a crescere, sfociando in risse, sparatorie, suicidi e sommosse, finché «l’ultimo uomo bianco» verrà sepolto e la bianchezza non sarà che un ricordo. Hamid, in un vortice di frasi che, come i personaggi che le abitano, sembrano sorrette da un disperato bisogno di stabilità identitaria, confeziona un romanzo di commovente lucidità sulla perdita del privilegio, un’opera in cui frustrazione e violenza si trasformano nella promessa di futuro: «a volte sembrava che la città fosse una città in lutto, e il Paese un Paese in lutto, e questo si addiceva a Anders, e si addiceva a Oona, dato che collimava con i loro sentimenti, ma altre volte sembrava il contrario, che stesse nascendo qualcosa di nuovo, e abbastanza stranamente anche questo si addiceva loro».
Di Mohsin Hamid ho letto anni fa “Exit West” che mi era piaciuto molto, e ancora oggi ricordo in modo piuttosto vivido alcune immagini e atmosfere di quel testo, ciò non è accaduto con questo libro. Hamid resta un autore valido per me e leggerò sicuramente altro di suo, ma questo libro non mi ha convinta. Anche qui abbiamo degli spunti interessanti, riflessioni iniziali intriganti, abbiamo un uomo bianco che si sveglia un mattino con la pelle scura e man mano questo evento inizia ad accomunare sempre più persone, fino a quando tutti i bianchi arrivano ad avere la pelle scura. Questo testo dovrebbe mettere sotto i riflettori la diversa percezione e il diverso trattamento ricevuto da una persona bianca e da una con la pelle scura, non c’è solo questo tema, ce ne sono molti altri, ma questo è uno dei principali. Il problema è che qualcosa non va nella narrazione, ho trovato tutto piuttosto piatto, manca quella profondità e umanità presente in “Exit West” ad esempio, non ho percepito i personaggi come essere umani, ma come delle pedine mosse dall’autore. Dall’esterno, leggendo la trama, ci si immagina una vicenda molto più avvincente e viva, rispetto a quella che ci si ritrova davanti leggendo il libro. Sembra un libro quasi abbozzato, non tanto per la struttura narrativa, più che altro per il modo in cui l’autore ha dato vita ed espressione alle vicende e ai personaggi, o meglio “poca vita” considerando tutto quello che ho scritto fino a questo punto.
Gli uomini che hanno ucciso la sua famiglia e bruciato la sua casa l’hanno lasciata a terra agonizzante, vittima di una guerra che nessuno ricorda più. Ma un misterioso straniero riccamente vestito la trova, la salva a un soffio dalla morte e le dona una nuova vita e un nuovo nome: Constanta, colei che è determinata a vivere. È così che la figlia del fabbro di un villaggio della Romania medievale diventa la sposa perfetta per un re immortale. Insieme attraversano i secoli e i paesi, da Vienna alla Spagna, da Pietrogrado a Parigi. Quando però lui coinvolge nella sua rete di passioni e inganni anche una machiavellica gentildonna e un attore squattrinato, Constanta inizia a capire che il suo amato è capace di atti orribili. E dopo essersi alleata con i suoi consorti di sangue – la bellissima Magdalena, il brillante Alexi – inizia a svelare gli oscuri segreti del marito. Constanta si ritrova a scegliere tra libertà e amore. Ma i legami costruiti con il sangue possono essere spezzati solo dalla morte.
So che mi starete odiando, e accadrà anche per la prima posizione di questa classifica. Questo libro ha avuto un successo incredibile, soprattutto in America, ne ho sentito parlare in tutte le salse, è stato nominato per i Goodreads Choice Awards nel 2021, è arrivato in Italia in una bellissima edizione Mondadori, insomma ha conquistato molti lettori, ma a me purtroppo non ha convito nonostante l’enorme curiosità ed entusiasmo iniziali. Dovrebbe essere un retelling di Dracula, o comunque prendere spunti da Dracula, posso capire il perché del successo, ma su di me non ha avuto effetto. Forse mi aspettavo un testo più dark, più pesante nei confronti delle tematiche presenti, come le relazioni tossiche, la manipolazione, la dipendenza emotiva, e anche qui più approfondimento. Inoltre, lo stile di S. Gibson è stato osannato come poetico e affascinante, ma l’ho trovato più che altro un contenitore vuoto o semi-vuoto, ci sono queste pillole poetiche, queste descrizioni che mirano ad essere liriche, ma non sempre funzionano, a volte le ho trovate esagerate o un poco forzate. Mi aspettavo un qualcosa di più profondo e analizzato, anche a livello di dinamiche fra i personaggi, invece nonostante siano vampiri centenari la maturità di questi vampiri assomiglia a quella di un’adolescente alle prese con le prime crisi adolescenziali. Peccato, la delusione è stata grande perché avevo proprio voglia di leggere un retelling scritto bene su Dracula, ma non è stato così. Ne parleremo meglio nella recensione approfondita.
Alicia Berenson sembra avere una vita perfetta: è un’artista di successo, ha sposato un noto fotografo di moda e abita in uno dei quartieri più esclusivi di Londra. Poi, una sera, quando suo marito Gabriel torna a casa dal lavoro, Alicia gli spara cinque volte in faccia freddandolo. Da quel momento, detenuta in un ospedale psichiatrico, Alicia si chiude in un mutismo impenetrabile, rifiutandosi di fornire qualsiasi spiegazione. Oltre ai tabloid e ai telegiornali, a interessarsi alla «paziente silenziosa» è anche Theo Faber, psicologo criminale sicuro di poterla aiutare a svelare il mistero di quella notte. E mentre a poco a poco la donna ricomincia a parlare, il disegno che affiora trascina il medico in un gioco subdolo e manipolatorio.
Eh lo so, lo so, mi state odiando, lo capisco. Allora, una parte di motivazione dietro a questo posizionamento è anche legata al mio livello di delusione, e ci tengo a dire subito che ho adorato il plot twist finale, pazzesco. Il colpo di scena finale è uno dei punti migliori del libro, forse l’unico, di certo lo stile dell’autore non aiuta perché è piuttosto semplice oserei dire in alcuni punti elementare, soprattutto quando mette in bocca a certi personaggi frasi o ragionamenti incoerenti con il personaggio in questione. Abbiamo psicologi che ragionano e parlano utilizzando termini non proprio coerenti al 100% con quello che dovrebbe essere il loro livello di conoscenza della materia. Voglio essere chiara, non ho odiato questo libro, semplicemente mi ha delusa e mi ha lasciata con un sonoro “bah”. Se dovessi basarmi solo sul colpo di scena vi direi che mi ha sorpresa e funziona bene, ma il libro in toto (colpo di scena a parte) per alcune parentesi non mi ha convinta. Il ritmo da un certo punto viene velocizzato, è un testo che usa la tecnica dei plot twist buttati addosso al lettore uno dietro all’altro, nei finale c’è una pioggia di colpi di scena e di solito a me, personalmente, questa tecnica non fa impazzire. Alcuni ragionamenti e dinamiche non mi hanno convinta, non posso andare nello specifico a causa spoiler, ma come dicevo questo libro non mi ha convinta del tutto. È il thriller peggiore che abbia mai letto? No. È stato un totale flop? No. È un libro con dei problemi? Sì ed è un testo che mi ha delusa sotto certi aspetti. Anche qui ne parleremo meglio in una recensione approfondita.
E voi? Quali sono state le vostre letture flop del 2024?
Ci leggiamo presto, in caso non dovessimo leggerci prima di Natale, buon feste cari/e!
Per molte persone settembre è l’inizio dell’anno, si cambia registro da un giorno all’altro anche a livello di clima oserei dire e se fino a qualche tempo fa eravamo immersi nella nube di distacco da tutto (tipica di agosto) oggi si fatica a farsi una ragione per la fine anche di queste ferie, sì lo so, siamo a oltre metà mese, ma il ricordo brucia.
Comunque, da una parte è quasi rassicurante il ritorno alla routine, certo e stabile, come la morte e le soap opera su Canale 5.
Oggi si torna a bomba con una recensione, parliamo di un testo che mi sono decisa a riprendere in mano dopo averlo messo in pausa circa un anno fa (sempre per colpa del mio periodo di scarse letture). Mi ci sono immersa di nuovo ricominciando da capo per essere certa di non perdermi nulla.
Parliamo subito de “Guida al Trattamento dei Vampiri per Casalinghe” di Grady Hendrix!
Guida al Trattamento dei Vampiri per Casalinghe – Grady Hendrix
Nel 1988, George H.W. Bush aveva appena vinto le elezioni presidenziali invitando tutti a leggere il labiale mentre Michael Dukakis aveva perso facendosi fotografare a bordo di un carro armato. Il dottor Robinson era il papà d’America, Kate e Ellie erano le mamme d’America, le protagoniste di Cuori senza età erano le nonne d’America, McDonald’s aveva annunciato l’apertura del suo primo ristorante in Unione Sovietica e tutti compravano una copia di Dal Big Bang ai buchi neri di Stephen Hawking, senza però leggerla, Il fantasma dell’opera esordiva a Broadway e Patricia Campbell si preparava a morire.
Trama
Difficile la vita di Patricia Campbell: il marito è troppo impegnato col lavoro, i figli con le loro vicende, l’anziana suocera ha bisogno di cure costanti per cui Patricia è sempre in ritardo nel suo infinito elenco di faccende domestiche. La sua unica oasi felice è un gruppo di lettura, formato da donne unite dal comune amore per il true crime. Nei loro incontri, invece che di matrimoni, maternità e pettegolezzi, si parla della famiglia Manson. Ma un giorno James Harris, bello e misterioso, viene a vivere nello stesso quartiere di Charleston e si unisce al gruppo. James è un uomo sensibile, colto e fa sentire a Patricia cose che non provava da anni. Eppure c’è qualcosa di strano in lui: non ha un conto in banca, non esce durante il giorno e la suocera di Patricia sostiene di averlo conosciuto da ragazza. Quando i bambini di colore cominciano a scomparire senza che la polizia faccia nulla, in Patricia e nelle amiche si fa strada il sospetto che James sia un serial killer, ma nessuno al di fuori del gruppo ci crede. Sono loro ad aver letto troppi libri di true crime o quello che si aggira nelle loro case è un mostro vero?
Recensione
Questo era stato il libro per il mese di maggio (2023) del gruppo di lettura, LiberTiAmo, io lo avevo iniziato e vi dirò mi stava anche piacendo parecchio, ma per il fatto che il 2023 è stato un flop a livello di letture (anche e forse soprattutto per colpa mia diciamolo) e per il fatto che mi sono impuntata di voler leggere tutti i testi citati all’interno di questo libro prima di leggere il libro in questione… eh insomma, l’ho abbandonato. O meglio, messo in pausa con la ferma speranza di riprenderlo un domani.
L’ho ripreso in mano due mesi fa, a luglio, e in pochi giorni l’ho divorato.
Stile, Ritmo e Atmosfera
Lo stile di Hendrix è decisamente scorrevole, direi che si concentra su ogni dettaglio con le tempistiche giuste senza mai eccedere. Capita a volte quando parliamo di un libro corposo (ma anche di un libro breve in certi casi) di avere la sensazione di star leggendo un testo con più pagine del dovuto, il classico pensiero “ci sono 50/100 pagine in più”, ci sono vicende in cui si nota la presenza di una lunghezza non necessaria. Non è questo il caso perché la storia di Patricia prende diverse pieghe e la storia che l’autore ci narra non è breve, ma ha tanti snodi. Questo non vuol dire comunque che una storia di base lineare o semplice non possa essere narrata in un libro di 700 pagine, dipende tutto da come lo si fa ovviamente.
Il ritmo è ben gestito, ci sono momenti della vicenda in cui rallenta e getta il lettore in uno stato di abbattimento perché desidera un movimento, e altri in cui l’autore mette il turbo (soprattutto in scene di tensione) e il battito accelera. C’è una scena in particolare che è una delle più agghiaccianti a mio vedere. Vi dirò, il libro è comunque un horror medio soprattutto se siete lettori che sguazzano da tempo già nel genere e non vi impressionate facilmente o comunque amate l’horror e leggete con frequenza testi di questo tipo. C’è qualche scena se vogliamo più horror o inquietante rispetto al tono generale, ma in linea di massima nulla di sconvolgente.
È il modo però in cui l’autore riesce a costruire la tensione che fa funzionare tante scene, l’occhio ai dettagli, le emozioni dei personaggi.
L’atmosfera generale infatti è variabile, abbiamo queste scene di amicizia e chiacchierate fra amiche, questo mood da gruppo di lettura fra casalinghe e quest’altra atmosfera di sottile inquietudine sempre presente, quando si avverte che qualcosa non va, che certi eventi o comportamenti nascondono altro.
Le tematiche affrontate
In questo libro ritroviamo una sfilza di tematiche che ci vengono presentate, l’amicizia femminile, il lavoro della casalinga e l’essere sottovalutata per questo lavoro, il tema dei mariti/uomini che sembrano non avere molta considerazione nei confronti delle loro mogli, c’è una buona dose di maschilismo in questo testo, l’essere considerata pazza, isterica, ma c’è anche il tema dello sconosciuto, dello straniero rappresentato da questo James, un uomo affascinante che entra quasi di prepotenza nella vita di Patricia e le fa terra bruciata attorno.
James è un personaggio molto interessante, perché ci viene presentato all’inizio come il nipote di una anziana signora recentemente defunta e vicina di Patricia (tra l’altro la nostra protagonista ha un ultimo incontro molto violento e strambo con questa signora), che pian piano inizia a chiedere favori a Patricia che in un primo momento è la prima a farsi avanti, più che altro per cortesia e perché le dispiace per la morte della parente.
Le cose man mano degenerano e Patricia iniziare ad avere dei sospetti su James perché nel frattempo in città (in una zona in particolare della città) stanno scomparendo dei bambini e alcuni sembrano comportarsi in modo strano.
James rappresenta lo “straniero”, l’elemento esterno che irrompe nella vita di una donna normale, una madre, una moglie, una casalinga piena di impegni e commissioni, con il suo gruppo di lettura e le sue chiacchierate fra amiche che a volte virano sulla cronaca nera e il true crime essendo loro appassionate di letture di questo genere.
Infatti c’è un collegamento che si crea con il titolo “Un Estraneo al Mio Fianco” (libro di Ann Rule in cui l’autrice racconta del suo rapporto con il serial killer Ted Bundy) e i primi sospetti che inizia ad avere Patricia su quest’uomo di cui alla fine non sa nulla di vero, la donna riflette, ricollega pezzi di discorsi e risposte dell’uomo per arrivare a capire inoltre che molte informazioni non sembrano vere, James si contraddice, mente.
James rappresenta anche il mostruoso, la minaccia, il nemico con cui sei costretta a convivere, l’elemento di cui non ti puoi fidare, sempre in agguato.
Non spoilero nulla se vi dico direttamente che James è la minaccia principale in questo libro perché si può intuire e anche nella trama che si trova in vari siti o all’interno stesso del libro non viene celata questa informazione.
Tra le tematiche citate sopra e a mio vedere maggiormente presenti c’è quella del sessismo e del maschilismo, ci sono momenti in cui questo libro diventa irritante proprio per scene di questo tipo da me interpretate come una scelta ben precisa dell’autore, che ha voluto mettere sotto i riflettori questo senso di superiorità dei mariti di queste donne nei loro confronti, l’autore tratteggia una realtà in cui questi uomini abusano delle mogli, mentalmente, fisicamente, e non danno loro credito per nulla. In particolare il marito di Patricia ad un certo punto del testo arriva persino a farla ricoverare nel reparto psichiatrico dove lavora lui e davanti ai loro bambini la umilia e ciò crea un profondo senso di odio in Patricia per lui.
Questo accade dopo un evento preciso, ma la parentesi dell’umiliazione e del trauma che questo padre non cerca di curare, ma anzi alimenta nei bambini solo per metterli contro alla madre è disgustoso.
Forse vi dirò che sono più forti e fastidiose determinate scene di sessismo che altre puramente horror.
Il libro si apre con la definizione presa dall’Oxford English Dictionary del 1971 per il termine “casalinga”, definita: “donna o ragazza superficiale, senza valore”.
Per me questa scelta di inserire questa determinata definizione all’inizio del testo è stato presagio di tematiche come il sessismo e il maschilismo, per questo dico che è una scelta dell’autore. Insisto su questo punto perché mi è capitato di leggere alcuni commenti in cui non era chiaro se queste tematiche fossero rappresentate appositamente oppure no.
Un altro tema è il razzismo, tematica rappresentata soprattutto dal personaggio di Miss Mary, donna di colore badante nella prima parte del libro della suocera di Patricia. Questa donna vive in una zona della città popolata soprattutto da afroamericani ed è palese il livello di razzismo e superficialità con cui viene trattata questa signora, le problematiche che affliggono queste persone e questa zona appunto citata che è tra l’altro il luogo dove stanno scomparendo questi bambini.
Patricia cerca di aiutarla e Miss Mary prova a fidarsi di lei, ma è oramai abituata a non essere ascoltata o considerata.
I personaggi principalie il punto finale della vicenda
Vorrei inoltre avvicinarmi alla fine di questa recensione parlando un secondo di più dei personaggi principali, faccio riferimento soprattutto a Patricia e a James.
James, come scritto sopra è il mostro, l’uomo che nasconde chiaramente grossi segreti, è anche però un personaggio sfuggente, molte volte non presente, va fuori città, si nasconde in casa, non si fa vedere.
Trovo però che riesca sempre in un modo o nell’altro a esserci senza essere per forza presente a livello fisico, Patricia fa spesso riferimento a lui, ci pensa, ne parla con altri, è la classica presenza fissa e mantiene bene quell’alone di mistero proprio per il suo essere sfuggente.
L’unico momento in cui cala il personaggio di James a mio vedere è nel finale, c’è una scena in cui si ritrova con le donne di queste club di lettura e assume un comportamento che spezza questa sua figura da villain.
Patricia invece è una donna normale come dicevamo, ligia alla sua famiglia e ai suoi doveri, una donna che non spezza le regole di solito, ma si convince di aver visto e di sapere qualcosa di importante e non può girarsi dell’altra parte, sente il bisogno di agire, vuole anche un po’ di brivido nella sua vita, come confida ad un’amica.
Patricia è comunque una donna con una forza interiore notevole, una determinazione potente, anche in momenti calanti dove sembra tutto negativo, sotto sotto resta fedele ai suoi sospetti.
La fine della vicenda è un poco velocizzata, alcuni personaggi prendono decisioni importanti, ma sembra tutto avanzare con una forte velocità, questo però riguarda proprio le ultime pagine, in generale direi che è un finale che funziona bene per gli eventi narrati.
Conclusioni
A me questo libro è piaciuto parecchio, di certo leggerò altro di Hendrix anche perché l’autore ha sempre uno stile e delle trame per i suoi testi molto accattivanti. Si assapora qui proprio l’America degli anni 80/90, l’atmosfera della vita tipica famigliare americana mista alla sfera horror, con vampiri, crimini, sangue, bambini rapiti…
È stata una lettura coinvolgente che mi dato un bello sprint!
Voto:
E voi? Avete mai letto qualcosa di Hendrix? Sì? No? Vi è piaciuto? Fatemi sapere!
Come state? Come va la permanenza su questo pianeta in mezzo a queste cascate di calura? Siete persi nella goduria delle ferie estive oppure è già tutto finito e il ritorno alla routine non è mai stato così triste?
Allora, oggi riprendiamo le recensioni finalmente e parliamo anche di un libro che è stato il libro del mese di maggio per il gruppo di lettura, un libro che non vedevo l’ora di leggere, un libro di cui si è parlato per mesi, un libro che forse, forse è stato il mio primo vero step verso una ripresa dato che la lettura di questo testo mi ha fatto riaccendere il fuoco della piena lettura.
Parliamo de “L’Acqua del Lago non è mai Dolce” di Giulia Caminito un testo del 2021, vincitore del Premio Campiello 2021 appunto.
Io direi di iniziare a sbirciare in qualche info del testo di oggi prima di addentrarci come sempre nella recensione vera e propria.
Iniziamo!
L’Acqua del Lago non è Mai Dolce – Giulia Caminito
Tutte le vite iniziano con una donna e così anche la mia, una donna con i capelli rossi che entra in una stanza e ha addosso un completo di lino, l’ha tirato fuori dall’armadio per l’occasione, se l’è comprato al banco di Porta Portese, il banco buono dei vestiti di marca ribassati, non quelli da poche lire, ma quelli con sopra il cartello: PREZZI VARI. La donna è mia madre e ha una valigetta di pelle nera stretta nella mano sinistra, si è fatta da sola la piega ai capelli, ha usato bigodini e lacca, ha gonfiato la frangetta con la spazzola, ha occhi verdi e gialli e tacchetti da cresima, lei entra e la stanza si fa piccola.
Trama
Odore di alghe limacciose e sabbia densa, odore di piume bagnate. È un antico cratere, ora pieno d’acqua: è il lago di Bracciano, dove approda, in fuga dall’indifferenza di Roma, la famiglia di Antonia, donna fiera fino alla testardaggine che da sola si occupa di un marito disabile e di quattro figli. Antonia è onestissima, Antonia non scende a compromessi, Antonia crede nel bene comune eppure vuole insegnare alla sua unica figlia femmina a contare solo sulla propria capacità di tenere alta la testa. E Gaia impara: a non lamentarsi, a salire ogni giorno su un regionale per andare a scuola, a leggere libri, a nascondere il telefonino in una scatola da scarpe, a tuffarsi nel lago anche se le correnti tirano verso il fondo. Sembra che questa ragazzina piena di lentiggini chini il capo: invece quando leva lo sguardo i suoi occhi hanno una luce nerissima. Ogni moto di ragionevolezza precipita dentro di lei come in quelle notti in cui corre a fari spenti nel buio in sella a un motorino. Alla banalità insapore della vita, a un torto subìto Gaia reagisce con violenza imprevedibile, con la determinazione di una divinità muta. Sono gli anni duemila, Gaia e i suoi amici crescono in un mondo dal quale le grandi battaglie politiche e civili sono lontane, vicino c’è solo il piccolo cabotaggio degli oggetti posseduti o negati, dei primi sms, le acque immobili di un’esistenza priva di orizzonti.
Recensione
Questo libro è stato di certo un caso editoriale di cui si è parlato tanto, è il terzo romanzo di Giulia Caminito e oltre ad aver vinto il premio Campiello è entrato nella cinquina dei testi finalisti del Premio Strega 2021.
Stile, Ritmo e Atmosfera
Come sempre io arrivo a festa già finita, perché ricordo un periodo in cui non si faceva altro che parlare di questo libro, iper venduto, iper reperibile nelle librerie, spuntava fuori da ogni pertugio, e io come al solito quando un testo va molto “di moda” o è comunque nel suo periodo di esplosione, mi volto dall’altra parte e preferisco aspettare che scenda l’hype e una volta sceso mi approccio timidamente a passettini.
Stavolta (come mi è capitato anche in altri casi) a fine lettura mi sono detta: “avrei potuto anche leggerlo prima”, ma ciò che è fatto è fatto, è arrivato al momento giusto.
Comunque, parlando dello stile Giulia Caminito mantiene per tutto il volume una tipologia di approccio stilistico piuttosto accattivante, emotivo, direi poetico a tratti nella sua durezza, perché abbiamo a che fare con personaggi, situazioni, luoghi, ambienti a volte rudi che mostrano una faccia cruda della realtà, nella sua connotazione anche più fredda e definitiva.
Lo stile riesce a rapire il lettore e a portarlo assieme a Gaia, la protagonista, nel suo mondo. Direi senza fronzoli, anche perché le vicende sono narrate in prima persona proprio da Gaia che è un personaggio pragmatico, anche chiuso emotivamente a tratti, ma non per questo lo stile è scarno o freddo, risulta comunque poetico come scritto sopra, perché Gaia è una brava osservatrice e anche se a volte i suoi comportamenti esterni con gli altri possono sembrare chiusi, interiormente è una ragazza sensibile e fragile.
“[…] io so occupare il mio spazio, l’ho imparato tra le mura di casa, che quando non smargini, quando stai al posto che t’è stato assegnato – uno scatolone, un armadio, un sottoletto – non sei di disturbo, non alzi polvere e tutti ti tollerano, evitano di prenderti a calci.”
Un tratto che non ho amato dello stile è il ripetersi di elenchi di descrizioni, un qualcosa in cui l’autrice cade spesso. Può funzionare bene all’inizio e non se ne sente troppo il peso, ma più si va avanti con la lettura e più questi elenchi si ripetono e il tutto diventa eccessivo a tratti, pesante oserei dire, vi faccio un esempio:
“Il mio banco, il mio astuccio, il bagno dove ci teniamo l’un l’altra la porta, il muretto, lo spazio che vogliamo marchiare della nostra umanità, rendere possesso ciò che è sconosciuto, spaventoso.” – “Si alza così una trincea, tra la me bambina che può sentirlo parlare nel sonno e la me donna che deve smettere di farlo, i nostri giochi separati, i nostri vestiti diversi, i poster appesi sul mio lato, le bandiere politiche sul suo, i letti con le lenzuola e le federe spaiate, ombre cinesi, lo vedo apparire e scomparire dietro alla stoffa, sembra una marionetta.” – “Io penso a lui e a quell’orologio che ha al polso che costa tre delle mie racchette, i ricci col gel, il motorino già promesso per i suoi quattordici anni, penso alle magliette coi loghi, agli occhiali da vista firmati, penso a quanto sono buoni i pasticcini allo zabaione che prepara sua madre, penso alla glassa rosa confetto e poi alla tovaglia a quadri di casa mia, il piatto rotto, le carote, i detersivi in offerta, Mariano che ora mi odia, vi vede solo dietro a una tenda, la tedesca che mi vietava di stare coi pesci, i cancelli rubati dai fascisti […]”
Qui sopra ho citato tre scene del libro in cui sono presenti questi elenchi di immagini, scene, descrizioni, oggetti, che a volte funzionano e non storpiano a mio vedere la narrazione e altre volte un po’ per la presenza eccessiva un po’ perché alcune scene descritte in questo modo funzionano peggio rispetto ad altre, storpiano.
Il ritmo del testo è piuttosto scorrevole, la narrazione non corre e non si adagia sugli allori, mantiene un ritmo equilibrato, in alcuni tratti o per alcuni concetti ci immergiamo maggiormente nei pensieri di Gaia e nelle sue emozioni, ma in generale è un testo ben gestito a livello ritmico.
Le atmosfere generali sono di pura realtà, di vita comune, sembra di essere assieme a Gaia nei suoi giorni più tristi e nei suoi giorni di cambiamento, seguiamo la vita di una ragazza normale, cresciuta in una famiglia povera, con un padre invalido, una madre dal carattere duro e spigoloso, a tratti aspro e inflessibile, che man mano va avanti con la sua vita in mezzo a difficoltà ed eventi che in un modo o nell’altro la plasmano e la rendono adulta. L’atmosfera è triste a tratti, malinconica, proprio come la realtà specialmente in momenti difficili e critici che di certo non mancano in questo testo e che accompagnano Gaia attraverso questi giorni normali che alla fine sono momenti di crescita e in men non si dica la nostra protagonista si ritrova adulta, senza accorgersene quasi e anche questa è realtà, il tempo che corre e si porta via tutto.
Una personalità complessa
Ho letto vari pareri su questo libro e ho scoperto che a vari lettori non ha convinto molto il personaggio di Gaia, a me personalmente è piaciuto, trovo sia ben costruito, ma di certo è una personalità intricata, non di facile comprensione e capisco che si possa arrivare a non apprezzarla o a non riuscire nella connessione con lei.
La seguiamo dall’infanzia alla prima giovinezza e abbiamo modo di vedere la sua evoluzione e i motivi dei suoi cambiamenti a livello comportamentale, vediamo come certi eventi accaduti in età infantile siano la conseguenza di certi atteggiamenti futuri e soprattutto di come il contesto in cui è nata e cresciuta finisca per impattare su di lei.
Gaia è una ragazza cresciuta in un contesto di povertà, con due fratelli più piccoli, uno più grande di quattro anni e varie amicizie nel corso del tempo che l’hanno più che altro ferita, il libro tocca diversi temi che hanno a che fare con le amicizie e la famiglia, anzi direi che sono proprio due delle tematiche principali.
Parlando di famiglia non possiamo non soffermarci un secondo sui genitori di Gaia, la madre Antonia e il padre Massimo. Antonia ci viene presentata fin da subito, Gaia ci parla immediatamente di lei, è una madre difficile, una figura che respinge e trattiene allo stesso tempo, una donna che ha sofferto, una figura che ha dovuto sempre lottare per avere anche la più piccola cosa. E Massimo è un uomo reso invalido da un incidente sul lavoro, ma dato che tale lavoro era in nero non ha mai ricevuto nessun soldo dall’assicurazione, e ora è paralizzato su una sedia a rotelle a vita. Ci appare come una figura rotta, spezzata dalla vita, quasi il fantasma di sé stesso, le continue lotte con Antonia sono conflitti che abbandona, la sua presenza nella vita dei figli diventa incostante e debole.
“Loro la alzano e la spostano di peso, la sollevano per braccia e gambe e allora la camicetta si apre e mostra un reggiseno senza ferretto, seni gonfi, la gonna si strappa e spuntano le sue mutande, mia madre ha già fatto a brandelli il vestito buono e scalcia e grida, come fiera spietata. E io è come se fossi lì, in piedi, a guardarla dall’angolo della stanza, la giudico e non la perdono.”
Vediamo vari personaggi incrociare il cammino di Gaia, amiche e amici, fidanzanti, parenti ed emerge molto spesso un lato della sua personalità come scritto anche sopra, non emotivamente aperto, forse è proprio questo l’aspetto che mi ha fatto apprezzare il personaggio, il suo essere così dura all’apparenza, una figura che sembra sempre avere il controllo sulle sue emozioni e sulle sue azioni, ma che in realtà (abbiamo modo di incrociare questo lato del suo carattere varie volte nel corso del libro) si lascia andare anche a scatti d’ira, azioni dannose dettate dalla rabbia, reazioni violente. Gaia è come una diga che si rompe, trattiene, si mette comoda e pensa di poter sopportare, digerire un evento, ma quando questo evento diventa troppo per lei non riesce a rispondere in modo logico o calmo, esplode.
Questa esplosione però non è solo la conseguenza di quell’evento, ma di altri eventi, un sovraccarico di emozioni che le piombano addosso.
E nel corso del libro, in momenti diversi e per motivi diversi (tenete conto del fatto che non voglio spoilerare quindi cerco di essere il più generica possibile) Gaia esplode perché la vita ti porta al punto di rottura e ti porta anche a non farcela a volte, questo è un testo che rappresenta una vita normale anche nel suo senso più fallimentare, non sempre c’è il successo, non sempre dopo la fatica c’è la soddisfazione, non sempre dopo il dolore c’è la gioia, a volte c’è solo lo scegliere la variante meno brutta.
Gaia fatica, soffre, studia, cresce, ma arriva al punto in cui quando è il momento di spiccare il volo, di avere un qualcosa in mano, di riuscire, lei non riesce. E questa in realtà è la storia di molte persone, è una storia reale, normale, non c’è solo l’idealizzare sempre un futuro ideale dove tutto si aggiusterà, c’è anche la vera realtà, quella di una vita dove non si ottiene ciò che si desidera.
E Gaia è sommersa dal suo ego, rinchiusa dentro ad un muro di rabbia e rancore per ciò che non ha avuto, ciò che non è andato nel modo desiderato, ciò che non ha funzionato, ci appare a tratti come una ragazza rigida nella dimostrazione dei suoi sentimenti e delle sue emozioni o di qualunque reazione che non sia quella rabbiosa e rancorosa.
Il lago come metafora della vita
Il lago stesso, simbolo di questo libro che torna sempre, il centro di tutto, un posto intorno al quale ruotano i personaggi e le vicende del romanzo, rappresenta proprio la vita.
Il lago e la sua acqua, a volte torbida e oscura che rappresenta le difficoltà e la fatica nel destreggiarsi tra i cunicoli della vita, a volte brillante che splende illuminata dalla luce del sole, acqua che cura e che scorre, simbolo di rigenerazione, dello scorrere del tempo e della vita.
Gaia anche alla fine del testo pensa al lago, torna al lago che ha assunto una serie di significati importanti per lei, è come se tutti i ricordi, tutti gli eventi vissuti siano stati raccolti e riportati lì, fonte che la riporta alla realtà.
In realtà in questo libro abbiamo anche altri elementi se vogliamo, immagini simboliche, che possono risplendere in varie scene e sembrano assumere un significato ben preciso, abbiamo il fuoco simbolo di rabbia, vendetta e distruzione, abbiamo anche un sacchetto di limoni che compare in una scena decisamente amara, simbolo di abbandono, distacco.
Insomma in questo libro persino determinate immagini a primo acchito innocenti si imprimono nella memoria e diventano portatrici di significati profondi.
Conclusioni
Mi è piaciuto decisamente questo libro, unico neo lo stile che a volte non mi ha fatta impazzire, è sicuramente vivido ed intenso, vivo e crudo in alcuni punti, ma l’autrice a volte si lascia andare alla scrittura di queste liste infinite che a volte risultano un poco pesanti e trascinano giù la scrittura, anche per il loro essere così frequenti.
In generale comunque è stata una lettura coinvolgente ed entusiasmante, non vedevo l’ora di prendere in mano il volume per poter andare avanti ed era un qualcosa che mi mancava parecchio, considerando i mesi di blocco.
Voto:
E voi? Avete mai letto “L’acqua del lago non è Mai Dolce”? Vi è piaciuto? Sì? No? Fatemi sapere!
Come andiamo? Come è andato il lungo mese di maggio?
Finalmente torno su questi schermi per una recensione, lo so, lo so, soliti impegni, soliti orari brutti che mi succhiano tempo, soliti ritardi. E io nel mentre che cerco di riemergere per dare qualche segnale di vita almeno, nulla di nuovo sotto il sole, ma il futuro è splendente e come sempre piano piano ci riprenderemo sperando in una tanto agognata costanza.
Ma oggi, parliamo di un libro di cui devo parlarvi da mesi, ovvero quella che è stata la lettura di gennaio per il gruppo, quindi “Una Questione Privata” di Beppe Fenoglio.
Il libro tratta un tema caro a Fenoglio, ovverosia la guerra partigiana negli anni finali della seconda guerra mondiale.
La bocca socchiusa, le braccia abbandonate lungo i fianchi, Milton guardava la villa di Fulvia, solitaria sulla collina che degradava sulla città di Alba. Il cuore non gli batteva, anzi sembrava latitante dentro il suo corpo. Ecco i quattro ciliegi che fiancheggiavano il vialetto oltre il cancello appena accostato, ecco i due faggi che svettavano di molto oltre il tetto scuro e lucido. I muri erano sempre candidi, senza macchie né fumosità, non stinte dalle violente piogge degli ultimi giorni. Tutte le finestre erano chiuse, a catenella, visibilmente da lungo tempo.
Trama
«È difficile trovare, nella letteratura italiana degli ultimi cento anni, un romanzo in cui amore e guerra, giovinezza e morte si intrecciano in modo così magico». (Nicola Lagioia). Nelle Langhe, durante la guerra partigiana, Milton (quasi una controfigura di Fenoglio stesso) è un giovane studente universitario, ex ufficiale che milita nelle formazioni autonome. Eroe solitario, durante un’azione militare rivede la villa dove aveva abitato Fulvia, una ragazza che egli aveva amato e che ancora ama. Mentre visita i luoghi del suo amore, rievocandone le vicende, viene a sapere che Fulvia si è innamorata di un suo amico, Giorgio: tormentato dalla gelosia, Milton tenta di rintracciare il rivale, scoprendo che è stato catturato dai fascisti…
Recensione
Finalmente è arrivato il momento di parlare di questo testo, mi sono fatta più che attendere, ma alla fine eccoci qui.
Mi sento persino arrugginita nello scrivere recensioni dato che è passato del tempo dall’ultima che ho scritto in versione integrale diciamo, ma cercherò di fare del mio meglio.
Stile, Ritmo e Atmosfera
Lo stile di Fenoglio è di certo diretto, chiaro e amaro in alcuni tratti. L’autore utilizza un lessico all’apparenza semplice che si adatta alla perfezione ai personaggi che ci ritroviamo a seguire nel corso del libro, parliamo di persone che sono nel mezzo di una guerra, partigiani (perlopiù ragazzi giovani) che si raggruppano in varie in varie formazioni ognuna con i propri pregi e difetti se vogliamo. Alcuni di questi ragazzi, come Milton il protagonista, sono ex universitari che hanno preso la decisione di unirsi appunto ai partigiani, ma la vita che vive il giovane è una vita fatta di attesa, violenza, nascondigli e strategie.
Parleremo meglio dei personaggi più avanti nella recensione, ma tornando al lato più tecnico del libro quindi quello riservato alla scrittura, ci tengo anche a dire che il ritmo generale della vicenda è a mio vedere ben gestito, non ci sono mai momenti calanti o fiacchi, anche in scene rilassante e lente il lettore resta comunque incuriosito dalla vicenda.
L’atmosfera generale è fredda oserei dire, viaggiamo con Milton attraverso scenari diversi, siamo nel novembre del 1944 ad Alba e nelle sue vicinanze, Milton si lascia trasportare all’inizio da un forte senso di malinconia e tristezza che si tramuta in desiderio di verità perché il ragazzo scopre un qualcosa che mette sottosopra tutte le sue convinzioni. Inizia così una corsa alla ricerca di un ragazzo, tale Giorgio Clerici, anche lui partigiano e amico di Fulvia e Milton, colui che ha in mano la verità.
Il romanzo è quindi una corsa contro il tempo di Milton per ritrovare Giorgio che nel frattempo è stato catturato dai fascisti e rischia la morte. Assieme a Milton ci ritroviamo quindi sopraffatti dall’angoscia di non riuscire possibilmente nell’impresa, l’angoscia del non poter dare una risposta alle mille domande. In tutto ciò siamo ricoperti da uno scenario freddo e nebbioso, con case rigide in cui i partigiani si nascondono e cercano alloggio nella notte.
Il nostro Milton
Il testo si apre con Milton che torna in un luogo a lui molto caro, la villa di Fulvia, la ragazza di cui è innamorato e da cui è stato costretto ad allontanarsi per forza di eventi. Questa scena iniziale ci racconta già tanto su Milton e altri personaggi che saranno importanti ai fini della storia, iniziamo anche a comprendere un poco le dinamiche presenti ai tempi del rapporto fra Milton e Fulvia. È facile comprendere fin da subito che Milton è ancora innamorato della ragazza, ma all’interno di questa villa, nel mezzo di questa visita sul viale dei ricordi, il giovane scoprirà che tra Fulvia e Giorgio c’è stato qualcosa, un qualcosa di cui lui non era al corrente.
Come scritto prima, questa scoperta getterà Milton in uno stato di profonda irrequietezza, diventerà apprensivo e agitato. Dopo questo evento lo vediamo smosso solo dal desiderio di risposte.
Il Milton del libro è l’ombra di Fenoglio, l’autore stesso fu un partigiano e in “Un Questione Privata” dipinge una Resistenza senza fronzoli, ma al tempo stesso non dà una lettura singola e buonista della Resistenza. La vita da partigiano che Fenoglio mostra non è quella in cui viene esaltata la visione eroica, dipingendo magari una realtà priva di criticità, ma anzi l’autore ci mostra la realtà anche non del tutto linda della vita da partigiano, ci mostra personaggi anche problematici che in quel tempo e in quella situazione vivono cercando di muoversi tramite strategie e movimenti loschi.
Questo è senz’altro uno dei motivi per cui l’opera di Fenoglio è stata esaltata sempre come “il grande romanzo sulla vita partigiana e sulla Resistenza”, per il senso di realismo con cui l’autore ci mostra i personaggi e questo stile di vita aspro.
Durante la lettura viene spontaneo prendere in considerazione anche ciò che va oltre la storia che si sta leggendo, non stiamo solo seguendo le vicende di Milton o non ci sentiamo solo coinvolti nel turbine di emozioni che travolgono il protagonista, stiamo leggendo anche di Fenoglio stesso, della storia d’Italia, della Resistenza raccontata da chi l’ha vissuta in prima persona. Non dico che le vicenda del protagonista passi in secondo piano, ma non si può non tenere conto di tutto il mondo che c’è dietro alla pura storia di questi personaggi che stiamo seguendo.
Tutto il testo si concentra su eventi che portano Milton all’apparenza sempre più vicino all’obiettivo ovvero l’incontro con Giorgio, gioca su una tensione sempre presente. E noi andiamo avanti aspettando che accada sempre qualcosa, quest’altra briciola che permetterà a Milton di arrivare forse a conoscere la verità. Anche il finale è impostato in questo modo, leggiamo una scena che ci porta avanti e tira la corda fino all’ultimo per poi tagliare il testo e chiuderlo con un’ultima frase enigmatica che lascia principalmente due interpretazioni.
Milton alla fine è un personaggio vinto dalle circostanze e dalla vita, è un giovane che lotta in una guerra che sembra senza fine, rischia la morte ogni giorno e si aggrappa a ricordi lontani, ma questi sono fragili e spenti. Per questo quando scopre la verità sul rapporto fra Fulvia e Giorgio monta in lui questo senso di frenesia perenne, tutte le sue certezze vengono spazzate via, ciò di cui era certo riguardo i sentimenti di Fulvia diventa incerto e senza quella base a cui aggrapparsi la vita già ardua di Milton diventa impossibile.
È interessante anche la contrapposizione presente fra il personaggio di Milton e quello di Giorgio, amici certo, ma diverso l’uno dall’altro. Milton è un ragazzo intelligente, non bello d’aspetto come viene ribadito in varie occasioni, sensibile, proveniente da una famiglia non ricca, mentre Giorgio come Fulvia proviene da una famiglia certamente più agiata, è un bel ragazzo, secondo Milton non adatto alla guerra ed emerge da lui un certo senso di nobiltà per l’atteggiamento anche con cui vive con gli altri partigiani.
Insomma, Milton è un personaggio per cui non si può non provare un moto di empatia, è un eroe tormentato, pronto a mettere da parte tutte le conquiste o le imprese compiute in guerra, il suo unico pensiero ad un tratto diventa l’amore, Fulvia e la scoperta della verità.
Conclusioni
“Una Questione Privata” è un testo di cui raccomando assolutamente la lettura perché che ad essere un libro godibile è anche un testo che rappresenta senza fronzoli la realtà partigiana a ci accompagna nel viaggio di un ragazzo tormentato fra piani strategici per recuperare Giorgio, speranze distrutte e paesaggi duri.
Voto:
E voi? Avete mai letto “Una Questione Privata”? Sì? Vi è piaciuto? Fatemi sapere!
Come state? Com’è iniziato il 2024? Come sono questi primi giorni di gennaio?
Oggi ripartiamo alla grande perché come primo vero articolo (escluso ovviamente l’annuncio per il libro del mese per il gdl) del 2024, parleremo in modo congiunto in un unico articolo di tutti quei testi che ho letto nel 2023/2022 e di cui non abbiamo ancora parlato, quantomeno in una recensione approfondita.
So che torniamo parecchio indietro, ma ci sono ancora dei libri letti nel 2022 di cui non ho mai parlato qui sul blog e mi dispiace non dire nulla a riguardo, fanno parte di quella serie di recensioni arretrate a cui ho accennato qualche volta.
Ebbene, non voglio che questi testi restino fuori per sempre dalla memoria senza mai più parlarne, il problema è che il mio pensiero/opinione su questi si può condensare in un unico articolo, quindi invece di scrivere recensioni singole cercheremo di “metterci in pari” con i testi arretrati del 2023/2022 che ho ancora da recensire, in un unico colpo, così guarderemo al futuro e a questo 2024 con un orizzonte pulito e una tela bianca, con il pensiero di non avere recensioni/testi arretrati di cui dover ancora parlare e senza sentirmi in colpa per averli esclusi. Ripartiamo da zero.
È un bel listone, ma alla fine su alcuni non ci perderemo più di tanto perché non ho appunto molto da dire e avrei voluto inserire di nuovo anche altri due testi presenti già nell’articolo dei libri top del 2023, ma non avrebbe avuto molto senso dato che buona parte di ciò che volevo dire riguardo a questi l’ho già fatto in quell’articolo che vi lascio qui. Sto parlando de “I Racconti di Pietroburgo” di Gogol e “Helter Skelter” di V. Bugliosi e C. Gentry.
Ok, diamo il via al mega recap e sistemiamo questo vuoto delle recensioni arretrate!
Una giovane donna è promessa in sposa a un uomo che neanche conosce. Le donne della sua famiglia, da generazioni, indossano una pelle d’uomo per muoversi indisturbate in una società troppo patriarcale per curarsi di loro. È così che Bianca diventa Lorenzo, che diventa amico del suo futuro marito, e scopre che in realtà questi è gay. Inizia una tenera relazione, in cui Giovanni non sa di tradire sua moglie… con sua moglie.
Parliamo di una graphic novel decisamente piacevole, con una storia ben gestita, interessante e con molti spunti di riflessione e di intrattenimento. Forse l’aspetto che sboccia di meno è proprio la grafica però, semplice in generale, ma ci sono tavole in cui forse questa semplicità prende una connotazione un poco negativa, in generale funziona, ma a tratti alcune tavole sembrano più abbozzate di altre, però è lo stile in sé. Si trattano tematiche come l’omosessualità, il fanatismo religioso, la libertà, l’omofobia, la condizione femminile e altri. Avevo letto questa graphic novel sul tablet e non mi dispiacerebbe recuperarla in cartaceo un giorno perché la ricordo come una lettura con un tono ironico, delicato, ma anche fermo nel mostrare situazioni/tematiche complesse in modo interessante.
Vivendo in una baracca vicino a un bosco, in cui il silenzio è troppo profondo per sfuggire all’eco dei tuoi pensieri e della tua rabbia, cerchi un modo per esprimere quello che senti, anche se non conosci le parole per farlo, anche se tuo padre ti ha insegnato il silenzio a schiaffi. Allora compri dei quaderni e scrivi come puoi quel che ti accade, nella vita e nella testa, cancellando gli errori e strappando le pagine. Ma ecco di nuovo quella strana volpe tra gli alberi, e con lei crollano gli argini ai ricordi più dolorosi e ai pensieri più cupi. I tuoi quaderni li nascondi nel terreno perché sarebbe un guaio se finissero nelle mani di tuo padre o dei tuoi amici, per non parlare dei poliziotti che sospettano tu abbia ucciso Nina. Era la tua ragazza e l’hanno trovata morta nel fiume. Tu ne sai qualcosa, e la volpe conosce i tuoi segreti.
Allora, siamo di fronte ad un testo piuttosto particolare, è scritto come un diario quindi in prima persona, con l’apposita data in alto, con frasi a volte cancellate, corrette, pensieri e sensazioni profonde del narratore che è un individuo emarginato che vive in mezzo al bosco e solitamente ha la compagnia di poche persone. È un libro sui traumi e su questa rabbia “o raggia” repressa del protagonista, che non sa come gestirla, ma questa è il frutto di un vissuto complesso, di rapporti problematici con molte figure presenti nella sua vita, con il rapporto con se stesso e direi in generale parte di ciò che lo ha formato. All’interno del testo sono presenti riferimenti a questa volpe, simbolo forse di una madre assente e sempre della rabbia che emerge nel corso della lettura di queste pagine di diario. È un libro amaro, con una violenza sempre presente in sottofondo, un senso generale di rabbia appunto. L’autore ha fatto un ottimo lavoro a livello psicologico perché riesce a far emergere la psiche di un individuo che ha vissuto in un certo senso ai margini della società ed è ripieno di sentimenti ed emozioni negative.
Il libro più importante della sua vita, Canetti lo portò sempre dentro di sé ma non lo compose mai. Per cinquant’anni procrastinò il momento di ordinare in un testo articolato i numerosissimi appunti che, nel dialogo costante con i contemporanei, con i grandi del passato e con i propri lutti familiari, andava prendendo giorno dopo giorno su uno dei temi cardine della sua opera: la battaglia contro la morte, contro la violenza del potere che afferma se stesso annientando gli altri, contro Dio che ha inventato la morte, contro l’uomo che uccide e ama la guerra. Una battaglia che era un costante tentativo di salvare i morti – almeno per qualche tempo ancora – sotto le ali del ricordo: «noi viviamo davvero dei morti. Non oso pensare che cosa saremmo senza di loro». Sospeso tra il desiderio di veder concluso “Il libro contro la morte”- «È ancora il mio libro per antonomasia. Riuscirò finalmente a scriverlo tutto d’un fiato?» – e la certezza che solo i posteri avrebbero potuto intraprendere il compito ordinatore a lui precluso, Canetti continuò a scrivere fino all’ultimo senza imprigionare nella griglia prepotente di un sistema i suoi pensieri: frasi brevi e icastiche, fabulae minimae, satire, invettive e fulminanti paradossi. Quel compito ordinatore è assolto ora da questo libro, complemento fondamentale e irrinunciabile di Massa e potere: ricostruito con sapienza filologica su materiali in gran parte inediti, esso ci restituisce un mosaico prezioso, collocandosi in posizione eminente fra le maggiori opere di Canetti.
Questo è stato il mio primo approccio a Canetti, e il testo in questione è una raccolta di riflessioni, citazioni, spezzoni di dialoghi avuti con i contemporanei e conclusioni a cui è arrivato l’autore in riferimento alla tematica su cui si basa il testo, ovvero la morte e il come non arrendersi ad essa. Allora, penso sia uscito un pillole letterarie a riguardo, questo qui, letteralmente l’ultimo presente sul blog. I testi che appaiono in questa rubrica sono testi che ho letto e che consiglio, ma su cui generalmente non ho molto da dire o testi che ho letto molto tempo fa e di cui ricordo poco o ancora, testi per cui non uscirà una vera recensione, ma che ci tengo a nominare. Bene, “Il libro Contro la Morte” è stata una lettura diluita in più settimane proprio per la forma anche del testo, che all’interno si presenta appunto come una raccolta di vari “pezzi” fra citazioni e altro. È stato un libro che ho vissuto in un certo modo, ne è uscito sottolineato, appuntato, segnato, ma alla fine penso sia un libro utile per conoscere Canetti e la sua mentalità riguardo a certe tematiche, e per conoscere inoltre la sua contemporaneità e alcuni eventi della sua vita privata a cui fa accenno in alcuni passaggi. Autore premio Nobel nel 1981, Canetti viene citato spesso per testi come “Auto da fé” e “Massa e Potere”, penso che “Il Libro Contro la Morte” mi sia servito come primo step per conoscerlo prima di affrontare i suoi pilastri, che di certo affronterò. Quindi se siete fan di Canetti secondo me amerete questo libro perché emerge la mentalità di Canetti e se invece come me non avete mai letto nulla si suo, è un ottimo modo per avvicinarsi a lui.
La notte, al villaggio, uno strano, impossibile silenzio abita il buio. Anche di giorno, l’assenza degli animali lascia ovunque le sue tracce: non un cane in cortile, non un gatto sui tetti, e nemmeno una mosca che ronza o un grillo che canta nei prati intorno. Qualcosa dev’essere successo tempo fa e i bambini ogni tanto fanno domande che restano senza risposta. Fino a quando Mati e Maya non partono per la loro avventura, in cerca del mistero del villaggio dove gli animali sono scomparsi. Nel folto del bosco troveranno Nimi, il bambino puledrino ammalato di nitrillo, Nehi, il demone del bosco e una triste verità.
Breve racconto/favola piuttosto conosciuta di Amos Oz, negli anni ho sentito nominare spesso questo libro ed è stato il mio primo vero approccio ad Amos Oz, autore di cui ho in libreria anche “Giuda” e “Una Storia di Amore e di Tenebra”. Ho sempre sentito tessere le lodi di questo testo e se devo essere sincera ricordo molto poco di questo libro, ricordo giusto qualche atmosfera, qualcosina di particolare sui personaggi e il mio non essere così su di giri per la lettura. Non è un libro orrido a mio vedere, ma è stata una lettura nella media, né sensazioni positive né negative, tutto neutro diciamo. Ci sono all’interno tematiche molto interessanti e buoni spunti di riflessione, ma per me non ha funzionato del tutto, finisce in quell’insieme di libri grigi, per cui non provo/ho provato entusiasmo, ma nemmeno delusione.
Voto:
L’Ultimo giorno di un Condannato a Morte – Victor Hugo
È anonimo l’autore che, nel 1829, dà alle stampe questo piccolo, gigantesco libro. Ma è inconfondibilmente Victor Hugo. Sono anni in cui il progresso sembra trasportare l’umanità intera, sul suo dorso poderoso, verso un futuro di pace, prosperità, ricchezza e fratellanza. Ma negli stessi anni si tagliano ancora teste davanti a un pubblico pagante, si marcisce in carcere, ci si lascia morire per una colpa non sempre dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio. Hugo parla a nome dell’umanità, come sempre, e lo fa attraverso la voce di un uomo qualunque, di un condannato qualunque, di un miserabile che rappresenta tutti i miserabili di tutte le nazioni e tutte le epoche. Un crimine di cui non conosciamo i dettagli lo ha fatto gettare in una cella. Persone di cui non conosciamo il nome dispongono della sua vita, come divinità autoproclamate. Un’angoscia di cui conosciamo fin troppo bene la lama lo tortura, giorno dopo giorno, e gli fa desiderare che il tempo corra sempre più veloce. Verso la fine dell’attesa, venga essa con la liberazione o con l’oblio.
È un testo basato sull’attesa di un condannato a morte, recluso nel carcere di Bicetre e destinato al patibolo. Lo seguiamo e accompagniamo nel corso di queste ore/giorni, nei suoi incontri con altri individui, ma soprattutto all’interno della sua crescente angoscia perché man mano che passano le ore questo senso di disperazione, ansia e apprensione crescono. È un crescendo appunto, fino ad arrivare al picco finale e al momento del patibolo. È una critica alla pena di morte nella Francia dell’ottocento, Hugo si schiera contro la pena capitale mostrando al lettore lo stato d’animo e fisico in cui vive un uomo relegato in queste condizioni. È senza dubbio un libriccino molto famoso che io volevo recuperare da tempo e sono felice di averlo fatto.
Incastonata come digressione nelle “Metamorfosi”, questa favola è uno dei più famosi e celebrati racconti d’amore di tutti i tempi. Il dio Amore, invaghitosi della bellissima Psiche, la visita ogni notte, con il patto che essa non cerchi mai di vedere il suo volto. Istigata dalle invidiose sorelle a scoprirne l’identità, la fanciulla sarà punita. e, solo dopo lunghe peregrinazioni, perdonata e resa immortale da Zeus,che l’accoglierà nell’Olimpo come sposa di Amore.
Beh, che dire, storia famosissima, citatissima, acclamatissima, che io però non avevo ancora letto. È appunto contenuta ne “Le Metamorfosi” di Apuleio, testo che devo ancora del tutto leggere, ma nel 2022 mi era venuta questa voglia di colmare la lacuna per non aver ancora letto questa favola. Mi è piaciuto, ma non mi sono strappata i capelli, c’è da tenere in considerazione il fatto che ovviamente è un testo scritto nel II sec. d.C., preso dalla mitologia e bisogna prenderlo per quello che è ovvero la storia d’amore fra un dio e una donna che dovrà affrontare varie prove. Ho letto varie recensioni e se da una parte ci sono persone che elogiano questo testo per i messaggi “positivi” contenuti all’interno, altre lo criticano per quelli “negativi”. Con una mentalità come quella di oggi è normale notare punti che magari fanno un po’ storcere il naso, ma secondo me in questo caso bisogna sospendere questa visione, queste critiche cadono un po’ nel vuoto, resta sempre un racconto del II secolo d.C.
Voto:
Il Racconto della Vecchia Balia – Elizabeth Gaskell
“Il racconto della vecchia balia” è uno scritto breve pubblicato nel 1852 in una raccolta dallo stesso titolo. Pare addirittura che lo stesso Charles Dickens volesse vederlo concluso, esortando l’autrice Elizabeth Gaskell a completarlo. La balia del racconto narra a dei giovani ascoltatori la storia della piccola Rosamond che, rimasta orfana, viene affidata alle cure di lontani e anziani parenti i quali, nel freddo della loro vecchia dimora, si dicono disponibili a prendersi cura di lei. Ma c’è un segreto misterioso che riguarda la storia familiare all’origine delle spettrali incursioni notturne di uno spirito bambina e del lugubre quanto minaccioso suono di un organo che riecheggia nell’ala est del nobile maniero nelle notti più tempestose. Esso appartiene a una tragica vicenda familiare che si è consumata molti anni addietro. Gaskell trasporta il lettore in una storia di fantasmi della vecchia Inghilterra, tra magioni infestate, paesaggi innevati, famiglie maledette e spettri che si aggirano per la brughiera. Un racconto “classico” in tal senso, rappresentativo di un genere tanto apprezzato quanto diffuso.
Racconto molto carino, forse mi aveva delusa un poco il finale, però ha certamente delle belle atmosfere per il tipo di storia di cui stiamo parlando, ovvero una ghost story. Tipica atmosfera inglese un po’ spooky, casa con oscuri segreti, apparizioni, fantasmi, vedo non vedo ecc. ecc. Stile “Il Giro di Vite” ma più godibile, dato che a me “Il Giro di Vite” non è piaciuto. Se cercate un racconto breve, ma decisamente scorrevole, magari anche adatto ad un periodo o momento di letture un pochino creepy o spooky questo può essere una buona scelta.
Terra di miti e leggende che sembrano riecheggiare ancora nei suoi paesaggi lunari, l’Islanda ha dato voce alla sua creatività anche in un originale patrimonio di fiabe, qui raccolte in un’antologia inedita. Un mondo di castelli stregati, lotte in sella ai draghi e viaggi per mare con le barche di pietra dei troll, popolato da bellissime regine che si rivelano orchesse, elfi dispettosi che è bene farsi amici, giganti a tre teste che escono dalle grotte di lava, e una natura “vivente” piena di misteri, dove ogni roccia, animale o corso d’acqua può nascondere un’insidia o una presenza fatata. Storie che raccontano l’eterna lotta tra il bene e il male a colpi di magie, metamorfosi e prove di astuzia e di coraggio, ma a oche l’origine di un proverbio o di un’antica credenza che fonde il sacro e il pagano, come quella degli elfi, i “figli sporchi” che Eva non è riuscita a lavare prima di una visita di Dio e che da allora dimorano negli anfratti rifuggendo ogni sguardo umano. Storie in cui i motivi di Biancaneve o delia Bella addormentata hanno risvolti per noi inaspettati, e se la giustizia trionfa sempre come vuole la tradizione, punendo i malvagi e dando felicità e ricchezza ai probi, ogni fiaba ci sorprende con uno humour irriverente, un’inedita sensualità o una crudezza che ricorda le saghe. Pagina dopo pagina ci avviciniamo all’anima di un popolo che nelle solitudini boreali ha sempre viaggiato con la parola, l’immaginazione, la poesia.
Avevamo parlato l’ultima volta di questo libro nell’appuntamento del dicembre 2022 per il gruppo di lettura. Ebbene, dopo non ci sono stati più aggiornamenti, ma da una me che era ancora in ottima forma nel 2022 a livello di letture era emerso un voto finale di tre stelle, per un testo che avevo letto alla fine in pochi giorni. È una raccolta di fiabe islandesi appunto, alcune più godibili di altre senza dubbio, ma alla fine una raccolta molto d’atmosfera adatta anche a periodi freddi o da leggere nel corso delle feste natalizie (che sono già andate stavolta). In vari racconti tornano tematiche molti simili, alcune fiabe un poco si assomigliano o sembrano legate, ma ovviamente si possono leggere in modo individuale. Ricordo qualcosa in particolare che mi ha colpita? No, ma ricordo le atmosfere.
Cry the Beloved Country è la storia commovente del pastore Zulu Stephen Kumalo e di suo figlio Absalom, ambientata sullo sfondo di una terra e di un popolo lacerati dall’ingiustizia razziale. Notevole per la sua contemporaneità, indimenticabile per carattere e avvenimenti, Cry the Beloved Country è un’opera classica di amore e speranza, coraggio e resistenza, nata dalla dignità dell’uomo.
Questo libro è stato pubblicato anche in italiano in varie edizioni Bompiani, negli anni 50′ e 80′ con il titolo “Piangi, Terra Amata”, ma al momento non è più disponibile in italiano, si trovano solo edizioni vintage in vendita da privati o magari in qualche libreria dell’usato. In inglese si trova senza problemi e infatti nei primi mesi del 2023 ho deciso di recuperarlo in questa edizione Random House nella collana Vintage Classics. Allora, questo è un altro testo che fa parte di quella lista di libri contenuti in “Guida al Trattamento dei Vampiri per Casalinghe” di G. Hendrix che è stato il libro del mese di maggio per il gdl e per cui io mi ero messa in testa di leggere tutti i testi presenti. Progetto fallito, lo sappiamo, ma a livello pratico sono riuscita a leggere quasi metà dei testi in questione, fra cui appunto “Piangi, Terra Amata/Cry, the Beloved Country”. È un viaggio questo libro, quello di un uomo, un prete cristiano, uno Zulu, del villaggio di Ixopo Ndotsheni che in seguito all’arrivo di alcune comunicazioni riguardanti il figlio e la sorella decide di recarsi a Johannesburg per riportare questi due membri della famiglia sulla retta via. Ovviamente accadranno una serie di fatti che cambieranno l’obbiettivo e lo svolgersi della vicenda. Senza dubbio è un testo drammatico, crudo nel suo mostrare con freddezza rapporti umani lacerati da eventi tragici compiuti con leggerezza. Non conoscevo questo testo e probabilmente non l’avrei mai letto nella mia vita senza l’idea di fare questa specie di challenge con me stessa, e sono felice di averla fatta, nonostante tutto. Trovo che da un certo punto in poi il libro si perda un poco, ma in generale è stata una lettura che mi ha soddisfatta.
Yvetot, giugno 1952. L’universo del bar-alimentari dell’infanzia di Ernaux viene sconvolto da un episodio spartiacque, terrificante: durante una lite il padre cerca di uccidere la madre, salvata forse solo dal provvidenziale intervento della figlia dodicenne. Attraverso il quotidiano confronto con le compagne di scuola, tutte borghesi, il rapporto con il mondo di provenienza – violento, contadino, operaio, non istruito – adesso si incrina. Lo «sguardo degli altri» si fa d’un tratto macigno, capace di schiacciare ogni slancio e condizionare ogni gesto. E’ il libro in cui, come non mai, Ernaux affronta di petto l’indicibile: il trauma e la vergogna che hanno acceso in lei il desiderio di ribellarsi e di scrivere.
Libro del luglio 2023 per il gruppo di lettura e ultimo testo di questo listone, ah e primo testo della Ernaux mai letto. Anche qui abbiamo un libro che per me rientra in quella zona grigia dei libri nella media, piacevole, ma non indimenticabile o degno di essere inserito nei libri piaciuti al 100%. È un testo autobiografico, come quelli dell’autrice, in cui racconta della propria infanzia e di un evento avvenuto quando lei era bambina che ha segnato la sua vita nel suo essere anche così improvviso e violento, il tentativo del padre di uccidere la madre. La Ernaux ci racconta di come questa macchia nei suoi ricordi si è allargata sempre più ed è diventata un qualcosa che ha richiesto un’uscita, un modo per poterla far sfogare ed è stata anche uno dei motori per il suo desiderio di scrivere. Come dicevo, piacevole, ottimi spunti di riflessione, leggerò sicuramente altro dell’autrice, ma non uno dei migliori dell’anno. Questo tra l’altro è stato l’ultimo testo che ho ufficialmente terminato nel 2023, perché tutti gli altri sono libri iniziati e non portati a termine.
Voto:
Bene! E voi? Quali sono state le vostre ultime letture?
Ah! Finalmente ora siamo in pari, da oggi in avanti parleremo di testi freschi appena terminati (sperando ovviamente di non finire in poco tempo con un sacco di recensioni arretrate, o forse sì dato che potrebbe essere un segnale di una ottima ripresa nella lettura)!
"We’re all scared most of the time. Life would be lifeless if we weren’t. Be scared, and then jump into that fear. Again and again. Just remember to hold on to yourself while you do it.”
"Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c'era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l'infinito. Perché la lettura è un'immortalità all'indietro."